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facciata condominio

Se condomino modifica facciata o parti comuni, cosa accade?

MODIFICA DELLA FACCIATA O DELLE PARTI COMUNI DA PARTE DI UN CONDOMINO – MANCANZA DEL CONSENSO DEL CONDOMINIO – TUTELA IN AMBITO CIVILE E IN AMBITO AMMINISTRATIVO

E’ necessario il consenso dell’Assemblea condominiale per la modifica facciata o di altre parti comuni da parte di un singolo condomino?

Cosa succede se costui esegue tali modifiche senza il detto consenso?

Può essere rilasciata una autorizzazione edilizia in mancanza di detto consenso?

 Un condomino può utilizzare le parti comuni sempre che questo non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di fare altrettanto (art. 1102 Codice Civile). Tuttavia ove tale utilizzo comporti una modifica della cosa, deve valutarsi se ciò sia da considerare o meno una innovazione, e sicuramente è tale una modifica, ad esempio, della facciata palazzo. In tal caso, occorre una delibera della Assemblea dei Condomini che approvi tale innovazione, con la maggioranza ex art. 1120 Cod. Civ., ossia, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e purché tale maggioranza esprima almeno i 2/3 dei millesimi. In alcuni condomini il Regolamento di origine contrattuale può stabilire perfino che per tale modifica sia necessaria l’unanimità dei consensi.

Ma cosa accade se il Condomino, dopo essersi munito di autorizzazione amministrativa ai lavori, li esegua nonostante il voto contrario dell’Assemblea dei Condomini?

La tutela civilistica per lesione del possesso

Al riguardo si è recentemente pronunciato il Tribunale di Roma, con ordinanza dell’11.9.2023, ove ha ribadito che la carenza di autorizzazione dell’Assemblea richiesta dal regolamento di condominio comporta che l’esecuzione delle opere costituisca lesione possessoria e il Giudice sia esentato dal dover valutare se le opere stesse costituiscano o meno lesione del decoro architettonico dell’edificio: “Ed invero, nel premettere che non risulta in contestazione tra le parti la realizzazione ad opera della società resistente degli interventi denunciati nel ricorso, deve rilevarsi che assume rilievo dirimente la previsione contenuta nell’art. 11, al punto 9) del Regolamento condominiale, la quale dispone che “sono vietate al singolo condomino innovazioni e modifiche delle parti comuni non preventivamente autorizzate dall’assemblea”.

Orbene, in conformità all’orientamento consolidato della Suprema Corte, proprio in riferimento a disposizioni che, come quella sopra citata, stabiliscano il divieto al singolo condomino di apportare innovazioni e modifiche delle parti comuni non preventivamente autorizzate dall’assemblea, deve essere riconosciuta all’autonomia privata la facoltà di stipulare convenzioni che pongano limitazioni nell’interesse comune ai diritti dei condomini, anche relativamente al contenuto del diritto dominicale sulle parti comuni o di loro esclusiva proprietà (cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 19 dicembre 2017, n. 30528), non essendo, peraltro, in dubbio che il regolamento di Condominio possa validamente derogare alle disposizioni dell’art. 1102 c.c.

Tanto premesso, deve ritenersi che l’uso delle parti comuni da parte di un condomino in difformità da quanto previsto nel Regolamento condominiale rende, da una parte, illegittimo tale uso, mentre, dall’altra, lede il compossesso delle parti comuni da parte degli altri condomini, nella misura in cui, apportando sulle stesse una modifica o un’innovazione non autorizzata, viene ad incidere sulla modalità di godimento delle dette parti comuni da parte degli altri condomini sino a quel momento esercitata, integrando così una lesione possessoria.

Peraltro, considerato che la violazione del divieto di apportare modifiche o innovazioni sulle cose comuni integra già di per sé una lesione possessoria, in riferimento all’intervento di sostituzione delle finestre preesistenti con porte finestre effettuato sulla facciata principale dell’edificio, il giudice è esonerato dal valutare l’incidenza dell’intervento sul decoro architettonico, vieppiù ove si consideri che nel Regolamento condominiale “anche l’estetica delle facciate” risulta annoverata tra le parti comuni e che l’art. 11 del richiamato Regolamento al punto 8) prevede che “è vietata la realizzazione di qualsiasi opera che pregiudichi le strutture portanti del Condominio e quelle che ne alterino l’aspetto architettonico”; così come, analogamente, in riferimento all’installazione della canna fumaria, il giudice è esonerato dalla valutazione circa l’idoneità di tale opera a recare pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio e ad alterarne il decoro architettonico, non essendo in dubbio che l’appoggio della canna fumaria integra una modifica della cosa comune consentita, secondo la previsione del Regolamento condominiale, soltanto previa autorizzazione dell’assemblea.”

Né alcun rilievo può avere la intenzione di riportare la facciata all’aspetto architettonico che avrebbe avuto prima di quello attuale, che era quello in cui è stato creato il Regolamento contrattuale di Condominio, e nemmeno l’avvenuto rilascio della autorizzazione amministrativa a fare tali lavori, siccome rilasciata con salvezza dei diritti del terzi: “Né, del resto, può dubitarsi della natura vincolante del Regolamento condominiale per la società convenuta, considerato che nell’atto di acquisto dell’immobile facente parte del fabbricato condominiale, stipulato in data 30 ottobre 2020, all’art. 3 è stato espressamente previsto che “La vendita viene fatta ed accettata … con tutti i diritti e gli obblighi nascenti dal Regolamento di Condominio vigente, che la parte acquirente dichiara di ben conoscere ed accettare, impegnandosi ad osservarlo per sé e suoi aventi causa per qualsiasi titolo”, con la conseguenza che, a fronte dell’obbligo espressamente assunto, non può essere attribuita alcuna rilevanza ala circostanza, dedotta dalla società convenuta in riferimento all’intervento operato sulla facciata, che le porte finestre erano previste dal progetto originario del fabbricato, risalente al 1890 ovvero in epoca anteriore alla redazione del Regolamento condominiale, né alla circostanza che le opere siano state eseguite previa preventiva acquisizione di tutte le necessarie autorizzazioni da parte delle Autorità amministrative, in quanto tali autorizzazioni non possono, comunque, in alcun modo pregiudicare i diritti dei terzi.

Ne segue che il Condomino dovrà ripristinare la situazione anteriore e risarcire i danni cagionati.

La tutela amministrativa per la illegittimità della autorizzazione edilizia.

Le autorizzazioni amministrative concernenti la facciata rilasciate al Condomino e senza aver acquisito il consenso dell’Assemblea dei Condomini sono in ogni caso illegittime in sé e il Condominio (e ogni singolo Condomino) ben può ottenerne l’annullamento.

Puntuale l’insegnamento rinvenibile nella decisione n. 219 del 12.1.2022 del Consiglio di Stato, sezione sesta, il quale ha ribadito che: “La giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, rilevato come occorra il consenso del condominio quando uno dei condomini intenda realizzare (o sanare), come nel caso di specie, opere che modifichino la facciata dell’edificio (Cons. Stato Sez. V, 21/10/2003, n. 6529; T.A.R. Campania Napoli Sez. VI, 16/11/2020, n. 5253).

Questo principio ha una portata generale e si applica anche quando l’interessato ritenga che le innovazioni sulle parti comuni non avrebbero alcuna rilevanza estetica, non essendo rimesso allo stesso considerare irrilevanti le innovazioni sotto il profilo estetico, qualora sia verificata la loro incidenza sostanziale sulla facciata dell’edificio condominiale.

Il “decoro architettonico” delle facciate costituisce, infatti, bene comune dell’edificio e pertanto ogni lavoro che su di esso sensibilmente incide, necessita dell’assenso dell’assemblea dei condomini, a prescindere dal giudizio sul risultato estetico dei lavori progettati (Cons. Stato, Sez. IV, 26 giugno 2012, n. 3772; Cass. II, 30/8/2004, n. 17398).

L’assenza del consenso dei condomini è un presupposto che il Comune deve accertare in sede istruttoria, secondo criteri di ragionevolezza, e si presenta come condizionante la legittimità del titolo abilitativo per la realizzazione delle opere.

Nel caso di specie l’intervento ha inciso indubbiamente in modo sostanziale sulla facciata dell’edificio ed è pacifico la mancanza di assenso del condominio alla realizzazione delle opere in questione, che al contrario era necessario.

La medesima decisione ha confermato come, in materia di impugnativa di titoli abilitativi edilizi da parte del terzo, il termine decadenziale per impugnare decorre dall’inizio dei lavori, allorché si contesti l’an dell’edificazione, mentre ove si contesti il quomodo, il termine inizia a decorrere dalla fine dei lavori o dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento.

Il Collegio rileva come sia corretto l’assunto del T.A.R. che, in materia di impugnativa di titoli abilitativi edilizi da parte del terzo, applicabile anche al nullaosta soprintendentizio, fa decorrere il termine decadenziale per impugnare dall’inizio dei lavori, allorché si contesti l’an dell’edificazione, mentre ove si contesti il quomodo, il termine inizia a decorrere dalla fine dei lavori o dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento.

In particolare, la giurisprudenza anche di questa Sezione ha precisato che il termine per impugnare il titolo abilitativo decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s’intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che non sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni semplici (Cons. Stato Sez. VI, 09/01/2020, n. 191).

La “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per la impugnazione di un titolo edilizio rilasciato a terzi viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), al completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione.

Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata (Cons. Stato Sez. II, 11/11/2019, n. 7692). L’esposizione del cartello di cantiere non integra, in sé, una forma di conoscenza legale del titolo edilizio (Cons. Stato Sez. IV, 21/10/2019, n. 7151).

Questo costituisce un elemento fondamentale da tener presente per agire tempestivamente avverso il provvedimento amministrativo autorizzatorio, ai fini del suo annullamento e per poter richiedere, ricorrendone i presupposti, il risarcimento dei danni conseguiti.

  Un consiglio operativo

Nella pratica, ove siano eseguiti lavori modificativi della facciata da parte del condomino senza previa autorizzazione dell’Assemblea, ben potrà essere proposta, dall’Amministratore del Condominio (che per tale azione non ha bisogno nemmeno di una delibera della Assemblea) ovvero anche da un singolo Condomino, una azione possessoria (entro un anno dall’intervento) per far ripristinare lo stato dei luoghi nonché potrà essere proposta, dai medesimi soggetti, una azione per far annullare le autorizzazioni amministrative concesse senza previa acquisizione del benestare della Assemblea dei Condomini a tali lavori.

Avv. Giorgio Falini

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riscaldamento centralizzato

Riscaldamento centralizzato, resa nulla la soppressione

La soppressione del servizio di riscaldamento centralizzato richiede l’unanimità, se manca il progetto globale per il passaggio al riscaldamento autonomo

La vicenda decisa da una recente decisione della Corte di Cassazione con sentenza 24976 del 19.8.2022 riguarda una delibera di Assemblea condominiale che ha soppresso il servizio di riscaldamento centralizzato con una votazione decisa a maggioranza. Alcuni condomini, dopo vari anni da tale delibera e dalla sua esecuzione, hanno contestato la stessa e hanno ottenuto ragione.

Le condizioni per essere esentati dall’osservanza della regola della unanimità

Infatti, prima il Tribunale di Milano e poi la Corte di Appello di Milano hanno ritenuto che la delibera doveva essere adottata all’unanimità, riguardando la rinuncia ad un servizio comune.

La Corte di Cassazione ha precisato in particolare come la normativa di contenimento del consumo energetico ha, innovando, previsto che la soppressione del servizio centralizzato di riscaldamento condominiale possa avvenire anche con una delibera a maggioranza (stante la pacifica interpretazione della giurisprudenza che ha sempre preteso per una delibera di rinuncia ad un bene o un servizio comune l’approvazione unanime dei condomini), ma ciò a condizione che la delibera si colleghi ad un progetto di trasformazione in impianti autonomi tali da garantire il risparmio energetico (pur non essendo necessaria la presenza di un progetto esecutivo):

Chiariti i principi che regolano la materia, anche alla stregua della successione delle leggi vigenti, nondimeno, la delibera che dispone l’eliminazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato per far luogo ad impianti autonomi nei singoli appartamenti, in tanto può essere adottata a maggioranza, e quindi in deroga agli artt. 1120 e 1136 c.c., in quanto sia previsto che avvenga nel rispetto delle previsioni legislative di cui alla legge n. 10/1991, ossia a garanzia sull’an e sul quomodo della riduzione del consumo specifico di energia, del miglioramento dell’efficienza energetica, dell’utilizzo di fonti di energia rinnovabili (pur non dovendo curarne previamente l’esecuzione).

Nella specie, invece, non soltanto non è stato previsto quanto richiesto dalla lett. g) dell’art. 8 della legge – che consente la trasformazione degli impianti centralizzati in unifamiliari a gas per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria dotati di sistema automatico di regolazione della temperatura, con determinazione dei consumi per le singole unità immobiliari -, ma in aggiunta ciascun condomino è stato, altresì, autorizzato a provvedere autonomamente ad installare l’impianto ritenuto più opportuno, senza alcun vincolo o indirizzo sui termini di detta conversione.”.

E inoltre: “Sicché, in realtà, non si tratta di una delibera che dispone la trasformazione o sostituzione – dettando il conseguente passaggio allo scopo di assicurare il risparmio energetico e la tutela ambientale – dell’impianto centralizzato in impianti autonomi, limitandosi essa, invece, a disporre il mero profilo soppressivo o abdicativo dell’impianto 25 centralizzato e rimettendo ai singoli condòmini la facoltà di dotarsi di impianti autonomi, in base alle loro scelte e senza alcuna previa indicazione.

Avrebbe dovuto, invece, prevedersi che fosse il condominio, che ne aveva titolo perché proprietario di tutte le parti comuni dell’intero edificio, compreso l’impianto di riscaldamento centralizzato, a dover eseguire e depositare in Comune il progetto di trasformazione dello stesso, con indicazione di tutte le opere necessarie al contenimento del consumo energetico dell’intero edificio, corredate dalla richiesta relazione tecnica attestante la rispondenza della trasformazione alle prescrizioni di legge, sia  pure con modalità semplificate, ove tanto fosse stato previsto dalle autorità locali, sino a restringerne il contenuto ai soli elementi identificativi dell’impianto e del generatore installato (come suggerisce la circolare del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato del 13 dicembre 1993, n. 231/F in Gazzetta Ufficiale n. 297, serie generale, parte prima, del 20 dicembre 1993).

E ciò sebbene a tale previsione nella delibera non dovesse associarsi la previa progettazione, rimessa invece alla successiva fase esecutiva.

L’accertamento della nullità della delibera anche dopo molti anni dalla sua adozione e su istanza di chiunque vi abbia interesse

Nel caso in questione, tale progetto non vi era, ma la delibera era di mera soppressione, lasciando liberi i condomini di realizzare gli impianti autonomi senza alcuna programmazione tecnica di sorta. Ne derivava la invalidità della delibera, che rientrando nelle ipotesi di nullità ben poteva essere dichiarata a distanza di molti anni dalla sua adozione e attuazione, su istanza perfino di un attuale condomino, e anche se costui fosse stato un acquirente da un condomino che all’epoca avesse votato a favore della delibera, secondo il noto principio che le nullità sono accertabili in ogni tempo e su istanza di chiunque vi abbia interesse.

In tal senso si è espressa una sentenza della Cassazione n. 12235 del 14.6.2016 relativa ad una azione proposta dall’acquirente di un appartamento dopo tre anni dal suo acquisto e nonostante che il venditore avesse votato a suo tempo a favore della delibera.

La richiesta di ripristino del servizio di riscaldamento centralizzato: esclusa la eccessiva onerosità e l’abuso del diritto

Ma la vicenda è giunta presso i Giudici di Piazza Cavour soprattutto perché la Corte di Appello piemontese, pur dopo aver accertato la nullità della delibera soppressiva del servizio di riscaldamento, aveva ritenuto emulativa e non meritevole di accoglimento, la richiesta dei nuovi condomini che avevano proposto la causa di condannare il Condominio al ripristino del servizio.

La Corte di Cassazione ha spiegato che trattandosi del ripristino di un servizio condominiale soppresso illegittimamente, non può parlarsi di attività emulativa o comunque eccessivamente onerosa, avendo i ricorrenti diritto a vedersi reintegrati nelle loro complete facoltà di condomini, nonostante che questo possa avere dei costi elevati, compreso quello del ripristino per i condomini nel frattempo già munitisi di impianti autonomi unifamiliari:

Infatti, alla declaratoria di nullità segue la piena legittimità della pretesa del condomino al ripristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato, soppresso dall’assemblea dei condòmini con delibera dichiarata nulla. E ciò perché non può essere considerata l’onerosità per gli altri condòmini, nel frattempo dotatisi di impianti autonomi unifamiliari, della realizzazione delle opere necessarie a tale ripristino, o l’eventuale possibilità per il condomino di ottenere, a titolo di risarcimento del danno, il ristoro del costo necessario alla realizzazione di un impianto di riscaldamento autonomo.“.

Né può parlarsi di abuso del diritto non potendosi confrontare l’utilità ritraibile dalla condomina con il disagio arrecato agli altri partecipanti al condominio: “Non può, infatti, ritenersi integrato l’abuso del diritto da parte dell’attrice, in quanto la decisione impugnata si basa su un inammissibile giudizio di proporzionalità fra l’utilità conseguibile dalla condomina e l’onerosità che ne sarebbe derivata ai condòmini (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1209 del 22/01/2016; sui limiti degli atti emulativi Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7562 del 18/03/2019; Sez. 2, Sentenza n. 12688 del 19/05/2017).”.

Conformi le decisioni di Cassazione 22.1.2016 n. 1209 e Cassazione 14.6.2016, n. 12235. Per precedenti in sede di merito si ricorda Tribunale di Roma, 30.7.2019, n. 15836.

Il costo del ripristino e la responsabilità (contrattuale) del Presidente dell’Assemblea e dell’Amministratore che hanno validato e posto in esecuzione la delibera nulla

Unico aspetto non esaminato dalla Corte è su chi debbano ricadere in definitiva i costi del ripristino, visto che in prima battuta saranno a carico dei condomini attuali (eccezion fatta per il vincitore della lite).

La nullità della delibera doveva essere rilevata in primo luogo dal Presidente dell’Assemblea che ha dichiarato approvata tale delibera (per applicazione analogica della norma circa le sue funzioni ex art. 2371 Cod. Civ.), e in secondo luogo doveva essere rilevata dall’Amministratore di Condominio dell’epoca che ha invece omesso tale rilevazione e ha dato attuazione alla stessa. Il titolo della responsabilità è contrattuale, svolgendo in entrambi i casi una attività, la prima gratuita, e la seconda onerosa, a favore del Condominio; con la conseguenza che la prescrizione sarà quella ordinaria decennale.

Avv. Giorgio Falini

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mediazione obbligatoria

Rimborsabili i costi della mediazione obbligatoria

 

Il vincitore della lite ha diritto al rimborso alle spese della mediazione obbligatoria, oltre alle spese di giudizio

Dal 2010 nel nostro ordinamento è stata inserita la procedura di mediazione civile e commerciale per agevolare la definizione delle controversie mediante accordi tra le parti, senza dover ricorrere al Tribunale.

L’esperimento di tale procedimento, gestito da vari Organismi di Mediazione, soggetti alla vigilanza del Ministero della Giustizia, è stato reso obbligatorio prima di accedere ai Tribunali per alcune materie.

Ecco il loro elenco originario:

  • Condominio: controversie relative alla gestione e all’uso delle parti comuni degli edifici residenziali;
  • Diritti reali: controversie riguardanti diritti di proprietà, servitù, enfiteusi e simili;
  • Divisione: controversie tra comproprietari riguardanti la divisione di beni comuni;
  • Successioni ereditarie: controversie relative a eredità e attribuzione dei beni ereditari;
  • Patti di famiglia: controversie legate agli accordi tra i membri di una famiglia riguardo alla divisione dei beni e delle proprietà;
  • Locazione e affitto d’azienda: controversie tra inquilini e proprietari riguardanti contratti di locazione e affitto di immobili, anche con riferimento agli affitti di azienda;
  • Contratti di comodato: controversie riguardanti la concessione temporanea dell’uso di un bene a titolo gratuito;
  • Assicurazioni: controversie tra assicurati e assicuratori riguardanti contratti di assicurazione;
  • Servizi bancari e finanziari: controversie tra clienti e istituti di credito riguardanti servizi bancari e finanziari;
  • Responsabilità medica e sanitaria: controversie riguardanti la responsabilità dei professionisti e delle strutture sanitarie per danni causati durante la prestazione di servizi medici;
  • Diffamazione a mezzo stampa o con altri mezzi di pubblicità: controversie riguardanti la diffamazione attraverso i mezzi di comunicazione.

La recente riforma Cartabia ha aggiunto a decorrere dal 30 giugno 2023 anche queste ulteriori materie:

  • Associazione in partecipazione;
  • Consorzio;
  • Franchising;
  • Opera;
  • Rete;
  • Somministrazione;
  • Società di persone;
  • Subfornitura

Anche il procedimento di mediazione ha dei costi, alcuni fissi, altri parametrati al valore della controversia, che debbono essere corrisposti a favore dell’Organismo di Mediazione. Inoltre, essendovi l’obbligo di farsi assistere da un avvocato, vi sono i relativi costi.

E’ sorto il dubbio se, in mancanza di accordo in sede di mediazione, nella sentenza che definisce il giudizio il vincitore della lite abbia diritto o meno al rimborso delle spese del procedimento di mediazione obbligatoria

Qualche Tribunale ha ritenuto che siano rimborsabili solo le spese corrisposte all’Organismo di Mediazione, e debbano essere aggiunte agli altri esborsi rimborsabili sostenuti per il giudizio (come i costi di notifica e di iscrizione a ruolo della causa), mentre invece il Tribunale di Trieste, con la sentenza del 11.3.2021, ha liquidato come spese di lite anche quelle corrisposte all’Organismo di Mediazione, nonché quelle relative al compenso dell’avvocato, liquidate mediante il ricorso ai parametri ministeriali (D.M. n. 147/2022 che aggiorna D.M. n. 55/2014).

Il fondamento della scelta della rimborsabilità

Tale decisione appare pienamente conforme a diritto, in quanto – stante la obbligatorietà del procedimento di mediazione – lo relative spese sono da considerare spese di giudizio, sebbene sostenute in una fase anteriore rispetto al giudizio vero e proprio. La ragione di tale inclusione nelle spese di giudizio appare la stessa in virtù della quale sono a carico del soccombente le spese del procedimento di accertamento tecnico preventivo svoltosi in vista del futuro giudizio di merito, procedimento anch’esso avente costi e che termina senza liquidazione degli stessi a carico di nessuna delle parti.

Inoltre non ha ragione di esistere una differenza tra rimborso delle spese vive sostenute, corrisposte all’Organismo di mediazione quali costi e quali indennità previsti dal D.M. n. 180/2010 che regola la loro attività, rispetto ai compensi dovuti all’avvocato per la propria assistenza, essendo questa imposta per legge. Probabilmente una qualche incertezza in merito a tali compensi era derivata dal mancato inserimento degli stessi come parametro nell’apposito Decreto Ministeriale (versione originaria DM n. 55/2014), omissione che era stata poi rimediata, sia per maggior chiarezza nei rapporti tra clienti e professionisti, sia per rendere più agevole ai Tribunali la liquidazione delle relative competenze in sede di liquidazione delle spese di lite al termine della causa.

Avv. Giorgio Falini

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notifica via pec

Notifica via pec della intimazione di sfratto

 

La notifica via pec della intimazione di sfratto esonera dall’invio della raccomandata ex art. 660 Cod. Proc. Civ.

A seguito della introduzione nel nostro ordinamento della possibilità della notifica diretta da parte degli avvocati a mezzo dell’uso della PEC, posta elettronica certificata, ci si è domandati se la notifica della intimazione di sfratto per finita locazione o per morosità (come anche della licenza per finita locazione), ove eseguita a mezzo pec, obblighi comunque all’invio della raccomandata ex art. 660 Cod. Proc. Civ.

Invero, ove ciò dovesse accadere, sarebbe del tutto inutile eseguire la notifica via pec, visto che l’ufficiale giudiziario invia la raccomandata in parola solo dopo che lui ha eseguito la notifica, non a mani proprie, dell’atto.

Ma la notifica pec equivale a notifica a mani proprie, come prevista dal codice di rito.

La risposta è stata data in senso negativo dal Tribunale di Modena, ord. 23 Luglio 2014, e, per contro, in senso positivo, da Tribunale di Frosinone, sent. 22.3.2016, con ampia e convincente motivazione.

Medesima convinzione è stata espressa dal Tribunale di Roma, con ord. 13.3.2018, ove tenuto conto degli effetti riconnessi dalla legge al procedimento di notificazione a mezzo pec, si è ritenuto che possa considerarsi avvenuta a mani proprie la notifica a mezzo pec, restando comunque irrilevante la mancata conoscenza concreta della notifica, ove il notificato non abbia cura di consultare la propria casella pec, atteso che tale consultazione (giornaliera) costituisce comunque un onere derivante dall’obbligo di disporre di tale casella (ad esempio per i soggetti tenuti alla iscrizione nel registro delle imprese, e per i professionisti iscritti ad Albi o Collegi).

Tale convincimento è adesso condiviso dalla intera sezione, come risulta dalle Regole di Condotta rese note dalla Sezione stessa, in relazione alle vertenze in materia di locazione, presenti sul sito del Tribunale stesso.

Tale validità rende invero assai più celere il procedimento, atteso che in tal modo il rispetto del termine di comparizione di 20 giorni viene del tutto favorito, e la parte istante può, appena effettuata la notifica, iscrivere a ruolo la causa, velocizzando l’assegnazione della stessa al Giudice e favorendo la conferma della data di udienza.

Avv. Giorgio Falini

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assemblea condominiale

Assemblea condominiale – Esclusione condomino in lite?

 

All’Assemblea condominiale che delibera di agire o difendersi giudizialmente avverso un Condomino, questi deve essere convocato?

Capita che un condomino sia in lite con il condominio, avendo ad esempio proposto  impugnazione contro una delibera assembleare, ovvero in quanto il Condominio intenda proporre nei suoi confronti una azione in giudizio per recupero crediti ovvero per altra ragione (ad esempio occupazione di aree condominiali, violazione del regolamento di condominio o di norme di legge, attività di immissioni oltre la normale tollerabilità, etc.).

Diritto alla convocazione, diritto alla partecipazione e diritto alla votazione

E’ sorta questione se il Condomino, che abbia proposto la lite, ovvero contro il quale il Condominio debba promuoverla, abbia diritto a partecipare o meno alla Assemblea condominiale che dovrà decidere su quale atteggiamento adottare nei confronti di tale lite.

La giurisprudenza di merito aveva escluso il suo diritto a partecipare alla votazione relativa alla deliberazione di promovimento di una lite nei suoi confronti, applicando per analogia la disciplina sul conflitto di interessi dettata in materia societaria dall’art. 2373 Cod. Civ. (Trib. Pescara, 30.7.2003).

La Corte di Cassazione, con recentissima ordinanza del 2.2.2023 n. 3192,

ha ritenuto che non possa applicarsi tale disciplina, atteso che la stessa si riferisce ad un conflitto che si presenta all’interno della compagine condominiale (si pensi alla votazione sul rendiconto dell’amministratore che sia anche condomino, ove costui dovrà ovviamente astenersi, come precisa Cass. 28.9.2015, n. 19131).

Ma si debba invece ritenere che il Condomino in lite (pendente o sulla quale debba decidersi) sia un “centro di interessi” estraneo e non possa dunque neppure partecipare alle Assemblee che debba decidere in ordine alla lite., “venendosi la compagine condominiale a scindere di fronte al particolare oggetto della lite in base ai contrapposti interessi, non sussiste il diritto del singolo (in quanto portatore unicamente di un interesse contrario a quello rimesso alla gestione collegiale) a partecipare all’assemble”.

E ciò è del tutto logico, ove si consideri come lo stesso non possa essere chiamato a partecipare alle spese di lite sostenute dal condominio (come da giurisprudenza costante, che ha considerato invalide le delibere relative).

In particolare non può lamentarsi di non essere stato almeno invitato a partecipare all’Assemblea di condominio, salvo poi non partecipare alla votazione,

atteso che “non esiste un distinto diritto alla convocazione per la sola fase preparatoria della riunione, consistente nel dibattito antecedente al momento deliberativo, in quanto l’intervento del partecipante nella discussione (al di fuori della peculiare ipotesi prevista dall’art. 10, comma 2, legge 27 luglio 1978, n. 392) è finalizzato a portare a conoscenza degli altri presenti le ragioni del proprio voto di assenso o dissenso sull’argomento contenuto nell’ordine del giorno.” (Cass. cit. 3192/23).

Recente applicazione del principio come sopra enunciato dalla Corte di legittimità si rinviene nella decisione della Corte di Appello di Milano, sentenza n. 891 del 15.2.2023, ove viene rigettato l’appello proposto contro la decisione del Tribunale di Como dell’8.6.2021 che aveva rilevato inammissibile la impugnativa della delibera della assemblea del 19.4.2018 per carenza di interesse.

Un consiglio operativo

Nella pratica, ove sia necessario deliberare in ordine ad una lite con un condomino, appare raccomandabile per l’Amministratore convocare una Assemblea apposita con solo tale punto all’Ordine del Giorno, atteso che altrimenti – in caso di più punti all’Ordine del Giorno – al momento in cui tale punto fosse trattato,  il Condomino in contrasto dovrebbe spontaneamente allontanarsi dalla Assemblea condominiale ovvero essere allontanato su disposizione del Presidente che regola la stessa, e essere riammesso solo dopo la ultimazione della trattazione del punto all’O.d.G., ove fossero presenti ulteriori punti da trattare (mentre appare inopportuno inserirlo come ultimo punto, per il rischio di sopravvenuta mancanza del numero legale per valide delibere).

Avv. Giorgio Falini

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separazione con addebito

Separazione con addebito per condotta violenta

La gravità della condotta violenta del coniuge è tale da costituire in ogni caso addebito della separazione, anche per un unico episodio

Con recente decisione la Corte di Cassazione (ord. 27324 del 16.9.2022) ha ribadito la gravità delle violenze fisiche in danno dell’altro coniuge, tali da costituire motivo di  separazione con addebito, pur se successive al manifestarsi della crisi coniugale, e da esonerare il Giudice dal dovere di confrontare tali condotte con quelle dell’altro coniuge. E ciò anche ove trattasi di unico episodio.

E invero, così si esprimono i Giudici di legittimità:

Secondo l’orientamento di questa Corte, al quale si intende dare continuità, i comportamenti reattivi del coniuge che sfociano in azioni violente e lesive dell’incolumità fisica dell’altro coniuge, rappresentano, in un giudizio di comparazione al fine di determinare l’addebito della separazione, causa determinante dell’intollerabilità della convivenza, nonostante la conflittualità fosse risalente nel tempo ed il fatto che l’altro coniuge contribuisse ad esasperare la relazione (Cass. n. 6997/2018; Cass. n. 7321/2005); invero, “Le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole – quand’anche concretantisi in un unico episodio di percosse -, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti l’intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore, e da esonerare il giudice del merito dal dovere di comparare con esse, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, restando altresì irrilevante la posteriorità temporale delle violenze rispetto al manifestarsi della crisi coniugale” (Cass. n. 7388/2017; Cass. n. 3925/2018).

Anche un unico episodio integra un comportamento idoneo, comunque, a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona (Cass. n. 433/2016) e la reazione aggressiva della vittima non ne riduce la portata e l’efficienza causale.”

Ripresa della convivenza e ricostituzione effettiva del ménage coniugale

Né può giovare a estinguere il procedimento di separazione una mera ripresa della convivenza, ove non si offra la prova della ricostituzione effettiva della vita coniugale:

Inoltre, non e’ sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, considerati gli effetti da essa derivanti, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale e provvisorio, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale (Cass. 19497/2005; Cass. 19535/2014; Cass. 1630 del 23/01/2018Cass. 20323/2019). Invero, “La mera coabitazione non e’ sufficiente a provare la riconciliazione tra coniugi separati essendo necessario il rispristino della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale”. (Cass. n. 19535 del 17/09/2014), dal che consegue che, laddove emerga una crisi coniugale prolungata ed irrisolta, i tentativi di superarla – nell’ambito dei quali può collocarsi la rinuncia ad un ricorso di separazione da parte del marito, come avvenuto nel caso in esame – non possono essere qualificati come “riconciliazione”, in assenza di elementi univoci e significativi del pieno e concreto ripristino della comunione di vita e di affetti.

Nella fattispecie la sussistenza delle condotte illecite da parte del coniuge era stata oggetto di pronunce in sede penale ed aveva acquisito valore di cosa giudicata, rendendo dunque indiscutibile la sua esistenza.

Avv. Giorgio Falini

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ex coniuge

Ex coniuge, assegno di mantenimento e tutela proprio credito

Come può il coniuge, avente diritto all’assegno di mantenimento per sé e/o per il figlio, tutelare il proprio credito

Spesso capita, in ragione dell’elevato tasso di conflittualità che caratterizza le separazioni ed i divorzi, che il coniuge (o ex coniuge in caso di divorzio), a favore del quale sia stato riconosciuto, con provvedimento giudiziale, anche in via temporanea ed urgente, un assegno di mantenimento, per sé e/o per i suoi figli, non si fidi del puntuale adempimento da parte del coniuge obbligato e voglia, pertanto, garantirsi da eventuali relativi inadempimenti.

Molteplici sono gli strumenti, che il coniuge avente diritto ha per tutelarsi.

IPOTECA GIUDIZIALE

In merito occorre ricordare che il provvedimento con il quale vengono riconosciuti i suddetti assegni, anche se di carattere provvisorio, è di per sé titolo esecutivo.

In forza di detto titolo è, pertanto, possibile iscrivere ipoteca giudiziale, sempre che il valore dei beni ipotecati non ecceda il credito che si intende tutelare. Ove ciò accada il coniuge che ha iscritto ipoteca viene condannato al risarcimento del danno.

Detto rimedio presuppone, quindi, che il credito che si vuole tutelare sia molto elevato, dal momento che gli immobili di norma non hanno un valore esiguo.

SEQUESTRO GIUDIZIALE

È possibile poi che il Giudice, su richiesta del coniuge avente diritto all’assegno per sé o per i figli, disponga il sequestro dei beni mobili, immobili o dei crediti dell’ex coniuge obbligato, per garantire che vengano soddisfatte o conservate le ragioni del primo.

L’art. 473 bis. 36 introdotto dalla riforma Cartabia non specifica che il sequestro possa essere concesso solo in caso inadempienza del coniuge obbligato, come era previsto ante riforma.

In ogni caso, è plausibile che il Giudice, nel valutare se concedere o meno il sequestro, accerti se nel caso concreto vi siano o meno esigenze di garanzia, non imponendo il vincolo ove non le ravvisi.

PAGAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO DIRETTAMENTE DA PARTE DEL TERZO DEBITORE DEL CONIUGE OBBLIGATO

terzo debitore

Una altra forma di garanzia del pagamento, puntuale, effettivo e completo, dell’assegno di mantenimento è costituito dalla possibilità che a detto pagamento provveda direttamente il terzo tenuto a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato (si pensi al datore di lavoro, all’Inps ecc.).

Prima della Riforma Cartabia, era il Giudice che poteva ordinare al terzo, su richiesta del coniuge avente diritto, di versare a quest’ultimo parte delle somme oggetto dell’assegno di mantenimento, in caso di inadempimento del coniuge obbligato.

Attualmente, a seguito di detta riforma, è direttamente il coniuge avente diritto all’assegno che può notificare il provvedimento, ovvero, in caso di negoziazione assistita, l’accordo nel quale è stabilita la misura dell’assegno al terzo, unitamente alla richiesta di versargli direttamente le somme dovute, dandone comunicazione all’altro coniuge.

PRESUPPOSTI PER CHIEDERE DIRETTAMENTE AL TERZO DEBITORE IL PAGAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Presupposto per procedere a detta notifica al terzo è che il coniuge obbligato sia inadempiente per un periodo di almeno 30 giorni e che lo stesso sia stato già costituito in mora dal coniuge avente diritto (questo significa che il coniuge  avente diritto deve diffidarlo al pagamento di quanto dovuto).

Il terzo è tenuto ad effettuare il pagamento dell’assegno dal mese successivo a quello della notifica.

E SE NEANCHE IL TERZO PAGA?

Allora il coniuge/genitore avente diritto all’assegno può intraprendere l’azione esecutiva direttamente nei confronti del terzo per il pagamento delle somme dovute.

Nell’ipotesi in cui lo stipendio del coniuge obbligato sia già stato in precedenza pignorato, nel momento in cui perviene al terzo datore di lavoro la notificazione della richiesta di provvedere direttamente al versamento dell’assegno di mantenimento, allora sarà il Giudice dell’esecuzione che procederà alla assegnazione e alla ripartizione delle somme tra il coniuge avente diritto e gli altri creditori, tenendo  conto della natura e della finalità dell’assegno (a livello meramente esemplificativo costituisce certamente elemento di rilievo la circostanza che l’assegno sia destinato al mantenimento dei figli, ovvero dell’altro coniuge che non abbia altre fonte di reddito.

Avv. Paola Martino

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assegno divorzile

Assegno Divorzile, recentissima sentenza Corte di Cassazione

Cessazione o revisione dell’Assegno Divorzile a seguito di instaurazione di una nuova stabile convivenza
Gli ultimi orientamenti della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza, ha escluso che la comprovata instaurazione, successivamente allo scioglimento del matrimonio, di una convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno, comporti automaticamente la perdita del medesimo assegno divorzile, ovvero la relativa riduzione, purché ricorrano determinate condizioni.
Questo il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, cui i giudici di merito, in situazioni analoghe, dovranno sostanzialmente uniformarsi:

“L’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno.
Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche all’attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge, in funzione esclusivamente compensativa.
A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge.
Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniale nè alla nuova condizione di vita dell’ex coniuge ma deve essere quantificato alla luce dei principi suesposti, tenuto conto, altresì della durata del matrimonio“.

Esaminiamone, punto per punto, il significato.
La Corte di Cassazione nella sentenza in commento esclude che la instaurazione di una stabile convivenza di fatto comporti automaticamente il venir meno dell’assegno divorzile ove ricorrano due sostanziali condizioni in capo al coniuge economicamente più debole, che richiede il permanere di detto assegno, ovvero che si opponga alla relativa riduzione.
La prima condizione è l’ex coniuge beneficiario sia privo di mezzi adeguati per il proprio mantenimento e si trovi nella impossibilità incolpevole di procurarseli e che questa mancanza di mezzi adeguati sia imputabile a sue scelte personali – quali la rinuncia ad effettive possibilità di carriera e di crescita professionale – fatte in condivisione con l’altro coniuge all’interno di un progetto comune, a beneficio dell’unione familiare.
In altri termini, è necessario che la condizione di maggiore debolezza di uno dei due ex coniugi derivi da relative pregresse scelte di vita, fatte in funzione della famiglia e del benessere anche economico di quest’ultima.
La seconda condizione è correlata alla prima, ovvero è necessario che l’assegno divorzile sia stato riconosciuto al coniuge più debole, ma comunque economicamente autosufficiente, in quanto la sua maggiore debolezza economica trovi la sua causa nei sacrifici fatti in nome della famiglia.

È cioè necessario che l’assegno, che l’ex coniuge più debole vuole conservare, malgrado l’instaurazione di una sua nuova stabile convivenza di fatto, abbia una funzione compensativa/perequativa, ovvero venga riconosciuto per l’appunto per compensarlo delle relative scelte economicamente penalizzanti, fatte, di comune accordo con l’altro, per contribuire alla formazione del patrimonio familiare e dell’ex coniuge.

Pertanto, in presenza di queste due condizioni – assenza di mezzi adeguati ed assegno di mantenimento con funzione compensativa – l’istaurazione di una nuova convivenza non comporta automaticamente il venir meno dell’assegno, ovvero la relativa riduzione.

nuova convivenza

In quanto, se è vero che la instaurazione di una stabile convivenza costituisce, da un lato, espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole e comporta, dall’altro, l’assunzione di responsabilità verso il nuovo partner e il nuovo nucleo familiare, è altresì vero che la creazione di una nuova famiglia di fatto non cancella di per sé tutti i sacrifici fatti dall’ex coniuge a favore della precedente famiglia, con conseguente conservazione del diritto al mantenimento dell’assegno divorzile, o meglio di quella parte dell’assegno, la cui finalità sia proprio quella di compensare l’ex coniuge di tutto quanto ha rinunciato.

Infatti, la funzione compensativa/perequativa dell’assegno non ha alcun collegamento con il nuovo progetto di vita nato con la creazione della nuova famiglia di fatto e non può, quindi, essere sostituita dalla solidarietà che si costituisce all’interno della nuova coppia, in quanto l’altro componente di detta nuova coppia non deve nei confronti dell’ex coniuge alcuna concreta “riconoscenza” per i sacrifici che lo stesso ha fatto nei confronti della pregressa famiglia.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, è l’ex coniuge onerato della corresponsione dell’assegno di mantenimento, che chiede la relativa esclusione, ovvero la relativa riduzione alla sola componente compensativa, a dover provare la ricorrenza di detta convivenza di fatto e della relativa stabilità.

A tal proposito indice di stabilità sono certamente la nascita di figli, la coabitazione, l‘avere conti correnti in comune, la contribuzione al ménage famigliare.

In ogni caso, in considerazione della difficoltà per chi è estraneo ad una coppia di reperire prove circa l’effettiva contribuzione dei conviventi al ménage familiare, si ritiene che onere dell’ex coniuge che vuole “liberarsi” della corresponsione “perenne” dell’assegno sia quello di dimostrare unicamente il carattere stabile della nuova convivenza, spettando al coniuge beneficiario dell’assegno di dimostrare la natura compensativa dello stesso.

Per verificare la possibilità di ottenere nel vostro caso la revoca, ovvero la riduzione dell’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge, potete fissare un primo colloquio orientativo (gratuito) cliccando qui.

Cass. Civ. Sez. Unit. Sent. n. 32198 del 5.11.2021

Avv. Paola Martino

figlio maggiorenne

Figlio maggiorenne ed ingresso nel mondo del lavoro

Il figlio maggiorenne, terminato il proprio ciclo di formazione ed entrato nel mondo del lavoro, perde il diritto ad essere mantenuto dai genitori

Con l’ordinanza in commento (n. 19696 del 22 luglio 2019),  la Corte di Cassazione conferma il proprio orientamento, per il quale il figlio maggiorenne perde il diritto all’assegno di mantenimento, tutte le volte in cui, completato il proprio percorso formativo (sia esso di studio, ovvero professionale) trovi una occupazione che, ancorché retribuita modestamente,  lo introduca nel mondo del lavoro, preludendo ad una successiva spendita della capacità lavorativa acquisita a rendimenti crescenti

Lo svolgimento di un lavoro di tal fatta consente, infatti,  di affermare che il figlio maggiorenne abbia raggiunto un sufficiente grado di capacità lavorativa che, essendo utilmente spendibile nel mercato del lavoro, consente allo stesso di rendersi  autosufficiente.

La giurisprudenza della Suprema Corte è, infatti, consolidata nel ritenere che l’obbligo di mantenimento dei genitori – in proporzione alle relative risorse economiche  – permane oltre il raggiungimento della maggiore età del figlio, sin quando lo stesso non completi, nei tempi ordinari, il percorso formativo dallo stesso prescelto, al fine di acquisire una capacità lavorativa idonea a renderlo autosufficiente.

Ne consegue come l’inizio dello svolgimento di una attività lavorativa,  conforme alla capacità lavorativa acquisita, consente di ritenere che la stessa si sia conclusa, con conseguente perdita del diritto al mantenimento.

Circa l’onere della prova, la Suprema Corte afferma  che debba essere il genitore, che vuole liberarsi dell’obbligo di mantenimento, a dimostrare che il figlio maggiorenne abbia completato la sua formazione ed abbia, quindi, raggiunto  un capacità lavorativa spendibile sul mercato del lavoro.

Di contro, il figlio, che vuole dal suo canto essere mantenuto, dovrà dimostrare la non imputabilità alla sua colpa o negligenza nel mancato reperimento di una attività lavorativa sufficientemente remunerativa, nonostante il completamento del suo ciclo di formazione.

Si evidenzia che una volta che il Giudice abbia sancito con provvedimento definitivo – ovvero non più impugnabile –  la perdita del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne, questo diritto non potrà più rivivere, anche nell’ipotesi di perdita e/o di riduzione da parte del figlio della attività lavorativa intrapresa, non importa per quali ragioni.

Ciò comporta che la richiesta di soppressione dell’assegno di mantenimento  a favore del figlio maggiorenne verrà vagliata dal Giudice con molta attenzione, nella consapevolezza che, una volta escluso detto mantenimento lo stesso non potrà più risorgere.

Rimane fermo per il figlio, come per l’ex coniuge, il diritto agli alimenti, ove lo stesso versi in comprovato  stato di bisogno.

Quindi riassumendo:

  • I genitori sono tenuti a mantenere i figli, oltre il raggiungimento della maggiore età, per consentirgli di acquisire, attraverso un percorso universitario o professionale, una capacità lavorativa che possa essere impiegata nel mondo del lavoro, con conseguente remunerazione idonea a rendere il figlio indipendente;
  • Ove, il figlio, terminata la propria formazione, intraprenda una attività lavorativa corrispondente alla capacità lavorativa acquista attraverso il percorso formativo pagato dai genitori, lo stesso può dirsi divenuto indipendente, anche se la remunerazione del suo lavoro sia, all’inizio, inferiore rispetto alla capacità lavorativa acquisita, ove il lavoro trovato lasci presumere maggiori futuri guadagni.
  • In questo caso il genitore tenuto al mantenimento può richiedere un provvedimento giudiziale di esclusione, totale o parziale, dello stesso.
  • Una volta escluso, il mantenimento non potrà essere nuovamente riconosciuto in capo al figlio, anche se lo stesso perda o veda contrarsi il lavoro acquisito

Avv. Paola Martino

Per ulteriori approfondimenti clicca qui:   figli maggiorenni disoccupati – quando viene meno l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori?

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esenzione imu

Esenzione IMU a coppie coniugate o di fatto e unioni civili

A seguito della recentissima decisione della Corte Costituzionale, anche le coppie coniugate, o unite civilmente, avranno diritto alla duplice esenzione IMU, ove risiedano e dimorino abitualmente in due case diverse.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 209 del 2022 del 13 ottobre 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che, ai fini dell’esenzione IMU, statuivano che “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»;

Presupposti dell’esenzione IMU prima della dichiarazione di incostituzionalità delle norme in commento –  Differenze tra coppie di fatto e coppie di fatto o unite civilmente

Prima di questa pronuncia di incostituzionalità, vi era, sotto il profilo dell’esenzione IMU, una sostanziale ed ingiustificata differenza tra chi era single, ovvero aveva costituito una coppia di fatto, e chi, invece, aveva deciso di formalizzare la propria unione mediante matrimonio, oppure unione civile.

Infatti, i single, ovvero le coppie di fatto, ai fini dell’esenzione IMU, dovevano (e devono tutt’ora) unicamente dimostrare di risiedere e dimorare abitualmente nell’immobile di cui sono possessori. Con la conseguenza che se i due membri della coppia di fatto risiedono in due immobili diversi, ciascuno di loro avrà certamente diritto all’esenzione in parola.

Per le coppie coniugate, o unite civilmente, prima dell’intervento della Corte Costituzionale in commento, invece, il trattamento era decisamente deteriore, anche per l’interpretazione della legge che ne dava la Corte di Cassazione, in considerazione del riferimento delle norme ai componenti del nucleo familiare che, ai fini dell’esenzione IMU, dovevano necessariamente risiedere nello stesso immobile con il relativo possessore.

Il Giudice di legittimità era, invero, giunto ad affermare che nel caso due persone legate da matrimonio, o da unione civile, fossero in possesso di due immobili presenti nello stesso comune, solo uno di essi poteva godere dell’esenzione.

Se poi gli immobili si trovavano in due comuni diversi, allora la Cassazione sosteneva che  nessun membro della coppia sposata, o unita civilmente, potesse godere del beneficio, in quanto in tal caso nessuno dei loro immobili avrebbe potuto essere considerato abitazione principale e, quindi, beneficiare dell’esenzione.

Proprio per arginare questa interpretazione restrittiva, il legislatore è intervenuto con l’art. 5-decies, comma 1, del d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2021, n. 215, stabilendo che: nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare.

Ragioni per le quali la Corte Costituzionale ha pronunciato l’incostituzionalità delle norme in commento

Me secondo la Corte Costituzionale questa apertura del legislatore non era comunque sufficiente, in quanto lasciava intatta la ingiustificata discriminazione tra coppie di fatto e coppie coniugate, o unite civilmente, dal momento che queste ultime per godere dell’esenzione IMU dovevano dimostrare, comunque, un qualcosa in più rispetto alla prime, ossia la residenza e dimora abituale nell’immobile per cui si chiedeva l’esenzione  non solo del possessore dell’immobile medesimo, ma anche del relativo nucleo familiare, laddove invece per le coppie di fatto questa doppia residenza non era richiesta.

Inoltre le coppie coniugate, o unite civilmente, potevano comunque godere di una sola esenzione, anche se proprietari di due immobili, anziché di due, come accadeva per le coppie di fatto se proprietari ciascuno di un immobile.

Questo pertanto il ragionamento seguito dalla Corte per dichiarare l’illegittimità delle norme in commento.

Secondo la Corte, nell’attuale momento socio/economico, contraddistinto dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dalla velocizzazione dei sistemi di trasporto e dall’evoluzione delle abitudini di vita, non può ritenersi affatto raro e inusuale che i membri di una coppia, pur mantenendo intatta la loro comunione materiale e spirituale, vivano “separati”, ovvero in luoghi diversi per riunirsi periodicamente.

Dal momento che l’IMU, prosegue la Corte nel suo ragionamento, è una imposta di natura reale –  presupponendo il possesso, la proprietà, o la titolarità di altro diritto reale, in relazione a beni immobili per i quali si chiede l’esenzione e non un imposta di tipo personale – il correlare la relativa esenzione alla tipologia di rapporto personale che il possessore dell’immobile istaura con un’altra persona è del tutto incoerente ed illogico e, quindi, per l’appunto incostituzionale.

Regole che presiedono l’esenzione IMU per le coppie coniugate o unite civilmente a seguito della decisione della Corte Costituzionale

Pertanto, a seguito della pronuncia di incostituzionalità in commento, i membri di una coppia coniugata, o unita civilmente, possono, in primo luogo, godere entrambi dell’esenzione IMU per i rispettivi immobili, siano essi presenti in uno stesso Comune o in Comune diversi, purchè in detti immobili ciascuno di essi abbia la residenza e la dimora abituali.

In secondo luogo, ai fini dell’esenzione IMU è sufficiente che nell’immobile per cui si chieda l’esenzione vi risieda e dimori stabilmente unicamente il relativo possessore, essendo venuto meno il riferimento alla contemporanea residenza di ogni componente del nucleo familiare.

Ovviamente perché anche le coppie coniugate, o unite civilmente, possano godere della doppia esenzione, al pari delle coppie di fatto possessori di due distinti immobili, è necessaria che la residenza e dimora abituale in ciascuno dei due immobili per i quali si chiede l’esenzione siano effettive.

A tale fine, rileva la Corte che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, come ad esempio il controllo dell’effettivo consumo di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi, che costituiscono un indice certamente valido della ricorrenza o meno di una effettiva residenza.

Nel pronunciare la declaratoria di illegittimità costituzionale di tali norme, il Giudice delle leggi ha comunque escluso che l’esenzione IMU spetti per le “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile.

Diritto al rimborso

A seguito della pronuncia della Corte Costituzionale in commento, è possibile richiedere il rimborso delle somme pagate e non dovute a titolo di IMU  fino a 5 anni precedenti, considerando, nello specifico, il termine del quinquennio a partire dal versamento ex art. 1, comma 164 della Legge 296/2006.

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Sentenza n. 209 del 2022 del 13 ottobre 2022

Avv. Paola Martino