Category Archives: condominio e locazioni

facciata condominio

Se condomino modifica facciata o parti comuni, cosa accade?

MODIFICA DELLA FACCIATA O DELLE PARTI COMUNI DA PARTE DI UN CONDOMINO – MANCANZA DEL CONSENSO DEL CONDOMINIO – TUTELA IN AMBITO CIVILE E IN AMBITO AMMINISTRATIVO

E’ necessario il consenso dell’Assemblea condominiale per la modifica facciata o di altre parti comuni da parte di un singolo condomino?

Cosa succede se costui esegue tali modifiche senza il detto consenso?

Può essere rilasciata una autorizzazione edilizia in mancanza di detto consenso?

 Un condomino può utilizzare le parti comuni sempre che questo non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di fare altrettanto (art. 1102 Codice Civile). Tuttavia ove tale utilizzo comporti una modifica della cosa, deve valutarsi se ciò sia da considerare o meno una innovazione, e sicuramente è tale una modifica, ad esempio, della facciata palazzo. In tal caso, occorre una delibera della Assemblea dei Condomini che approvi tale innovazione, con la maggioranza ex art. 1120 Cod. Civ., ossia, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e purché tale maggioranza esprima almeno i 2/3 dei millesimi. In alcuni condomini il Regolamento di origine contrattuale può stabilire perfino che per tale modifica sia necessaria l’unanimità dei consensi.

Ma cosa accade se il Condomino, dopo essersi munito di autorizzazione amministrativa ai lavori, li esegua nonostante il voto contrario dell’Assemblea dei Condomini?

La tutela civilistica per lesione del possesso

Al riguardo si è recentemente pronunciato il Tribunale di Roma, con ordinanza dell’11.9.2023, ove ha ribadito che la carenza di autorizzazione dell’Assemblea richiesta dal regolamento di condominio comporta che l’esecuzione delle opere costituisca lesione possessoria e il Giudice sia esentato dal dover valutare se le opere stesse costituiscano o meno lesione del decoro architettonico dell’edificio: “Ed invero, nel premettere che non risulta in contestazione tra le parti la realizzazione ad opera della società resistente degli interventi denunciati nel ricorso, deve rilevarsi che assume rilievo dirimente la previsione contenuta nell’art. 11, al punto 9) del Regolamento condominiale, la quale dispone che “sono vietate al singolo condomino innovazioni e modifiche delle parti comuni non preventivamente autorizzate dall’assemblea”.

Orbene, in conformità all’orientamento consolidato della Suprema Corte, proprio in riferimento a disposizioni che, come quella sopra citata, stabiliscano il divieto al singolo condomino di apportare innovazioni e modifiche delle parti comuni non preventivamente autorizzate dall’assemblea, deve essere riconosciuta all’autonomia privata la facoltà di stipulare convenzioni che pongano limitazioni nell’interesse comune ai diritti dei condomini, anche relativamente al contenuto del diritto dominicale sulle parti comuni o di loro esclusiva proprietà (cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 19 dicembre 2017, n. 30528), non essendo, peraltro, in dubbio che il regolamento di Condominio possa validamente derogare alle disposizioni dell’art. 1102 c.c.

Tanto premesso, deve ritenersi che l’uso delle parti comuni da parte di un condomino in difformità da quanto previsto nel Regolamento condominiale rende, da una parte, illegittimo tale uso, mentre, dall’altra, lede il compossesso delle parti comuni da parte degli altri condomini, nella misura in cui, apportando sulle stesse una modifica o un’innovazione non autorizzata, viene ad incidere sulla modalità di godimento delle dette parti comuni da parte degli altri condomini sino a quel momento esercitata, integrando così una lesione possessoria.

Peraltro, considerato che la violazione del divieto di apportare modifiche o innovazioni sulle cose comuni integra già di per sé una lesione possessoria, in riferimento all’intervento di sostituzione delle finestre preesistenti con porte finestre effettuato sulla facciata principale dell’edificio, il giudice è esonerato dal valutare l’incidenza dell’intervento sul decoro architettonico, vieppiù ove si consideri che nel Regolamento condominiale “anche l’estetica delle facciate” risulta annoverata tra le parti comuni e che l’art. 11 del richiamato Regolamento al punto 8) prevede che “è vietata la realizzazione di qualsiasi opera che pregiudichi le strutture portanti del Condominio e quelle che ne alterino l’aspetto architettonico”; così come, analogamente, in riferimento all’installazione della canna fumaria, il giudice è esonerato dalla valutazione circa l’idoneità di tale opera a recare pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio e ad alterarne il decoro architettonico, non essendo in dubbio che l’appoggio della canna fumaria integra una modifica della cosa comune consentita, secondo la previsione del Regolamento condominiale, soltanto previa autorizzazione dell’assemblea.”

Né alcun rilievo può avere la intenzione di riportare la facciata all’aspetto architettonico che avrebbe avuto prima di quello attuale, che era quello in cui è stato creato il Regolamento contrattuale di Condominio, e nemmeno l’avvenuto rilascio della autorizzazione amministrativa a fare tali lavori, siccome rilasciata con salvezza dei diritti del terzi: “Né, del resto, può dubitarsi della natura vincolante del Regolamento condominiale per la società convenuta, considerato che nell’atto di acquisto dell’immobile facente parte del fabbricato condominiale, stipulato in data 30 ottobre 2020, all’art. 3 è stato espressamente previsto che “La vendita viene fatta ed accettata … con tutti i diritti e gli obblighi nascenti dal Regolamento di Condominio vigente, che la parte acquirente dichiara di ben conoscere ed accettare, impegnandosi ad osservarlo per sé e suoi aventi causa per qualsiasi titolo”, con la conseguenza che, a fronte dell’obbligo espressamente assunto, non può essere attribuita alcuna rilevanza ala circostanza, dedotta dalla società convenuta in riferimento all’intervento operato sulla facciata, che le porte finestre erano previste dal progetto originario del fabbricato, risalente al 1890 ovvero in epoca anteriore alla redazione del Regolamento condominiale, né alla circostanza che le opere siano state eseguite previa preventiva acquisizione di tutte le necessarie autorizzazioni da parte delle Autorità amministrative, in quanto tali autorizzazioni non possono, comunque, in alcun modo pregiudicare i diritti dei terzi.

Ne segue che il Condomino dovrà ripristinare la situazione anteriore e risarcire i danni cagionati.

La tutela amministrativa per la illegittimità della autorizzazione edilizia.

Le autorizzazioni amministrative concernenti la facciata rilasciate al Condomino e senza aver acquisito il consenso dell’Assemblea dei Condomini sono in ogni caso illegittime in sé e il Condominio (e ogni singolo Condomino) ben può ottenerne l’annullamento.

Puntuale l’insegnamento rinvenibile nella decisione n. 219 del 12.1.2022 del Consiglio di Stato, sezione sesta, il quale ha ribadito che: “La giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, rilevato come occorra il consenso del condominio quando uno dei condomini intenda realizzare (o sanare), come nel caso di specie, opere che modifichino la facciata dell’edificio (Cons. Stato Sez. V, 21/10/2003, n. 6529; T.A.R. Campania Napoli Sez. VI, 16/11/2020, n. 5253).

Questo principio ha una portata generale e si applica anche quando l’interessato ritenga che le innovazioni sulle parti comuni non avrebbero alcuna rilevanza estetica, non essendo rimesso allo stesso considerare irrilevanti le innovazioni sotto il profilo estetico, qualora sia verificata la loro incidenza sostanziale sulla facciata dell’edificio condominiale.

Il “decoro architettonico” delle facciate costituisce, infatti, bene comune dell’edificio e pertanto ogni lavoro che su di esso sensibilmente incide, necessita dell’assenso dell’assemblea dei condomini, a prescindere dal giudizio sul risultato estetico dei lavori progettati (Cons. Stato, Sez. IV, 26 giugno 2012, n. 3772; Cass. II, 30/8/2004, n. 17398).

L’assenza del consenso dei condomini è un presupposto che il Comune deve accertare in sede istruttoria, secondo criteri di ragionevolezza, e si presenta come condizionante la legittimità del titolo abilitativo per la realizzazione delle opere.

Nel caso di specie l’intervento ha inciso indubbiamente in modo sostanziale sulla facciata dell’edificio ed è pacifico la mancanza di assenso del condominio alla realizzazione delle opere in questione, che al contrario era necessario.

La medesima decisione ha confermato come, in materia di impugnativa di titoli abilitativi edilizi da parte del terzo, il termine decadenziale per impugnare decorre dall’inizio dei lavori, allorché si contesti l’an dell’edificazione, mentre ove si contesti il quomodo, il termine inizia a decorrere dalla fine dei lavori o dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento.

Il Collegio rileva come sia corretto l’assunto del T.A.R. che, in materia di impugnativa di titoli abilitativi edilizi da parte del terzo, applicabile anche al nullaosta soprintendentizio, fa decorrere il termine decadenziale per impugnare dall’inizio dei lavori, allorché si contesti l’an dell’edificazione, mentre ove si contesti il quomodo, il termine inizia a decorrere dalla fine dei lavori o dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento.

In particolare, la giurisprudenza anche di questa Sezione ha precisato che il termine per impugnare il titolo abilitativo decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s’intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che non sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni semplici (Cons. Stato Sez. VI, 09/01/2020, n. 191).

La “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per la impugnazione di un titolo edilizio rilasciato a terzi viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), al completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione.

Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata (Cons. Stato Sez. II, 11/11/2019, n. 7692). L’esposizione del cartello di cantiere non integra, in sé, una forma di conoscenza legale del titolo edilizio (Cons. Stato Sez. IV, 21/10/2019, n. 7151).

Questo costituisce un elemento fondamentale da tener presente per agire tempestivamente avverso il provvedimento amministrativo autorizzatorio, ai fini del suo annullamento e per poter richiedere, ricorrendone i presupposti, il risarcimento dei danni conseguiti.

  Un consiglio operativo

Nella pratica, ove siano eseguiti lavori modificativi della facciata da parte del condomino senza previa autorizzazione dell’Assemblea, ben potrà essere proposta, dall’Amministratore del Condominio (che per tale azione non ha bisogno nemmeno di una delibera della Assemblea) ovvero anche da un singolo Condomino, una azione possessoria (entro un anno dall’intervento) per far ripristinare lo stato dei luoghi nonché potrà essere proposta, dai medesimi soggetti, una azione per far annullare le autorizzazioni amministrative concesse senza previa acquisizione del benestare della Assemblea dei Condomini a tali lavori.

Avv. Giorgio Falini

Per una analisi legale specifica della vostra situazione giuridica, è possibile prenotare un colloquio orientativo gratuito, in forma del tutto riservata, in Studio o a distanza (via telefono o videochiamata

 

riscaldamento centralizzato

Riscaldamento centralizzato, resa nulla la soppressione

La soppressione del servizio di riscaldamento centralizzato richiede l’unanimità, se manca il progetto globale per il passaggio al riscaldamento autonomo

La vicenda decisa da una recente decisione della Corte di Cassazione con sentenza 24976 del 19.8.2022 riguarda una delibera di Assemblea condominiale che ha soppresso il servizio di riscaldamento centralizzato con una votazione decisa a maggioranza. Alcuni condomini, dopo vari anni da tale delibera e dalla sua esecuzione, hanno contestato la stessa e hanno ottenuto ragione.

Le condizioni per essere esentati dall’osservanza della regola della unanimità

Infatti, prima il Tribunale di Milano e poi la Corte di Appello di Milano hanno ritenuto che la delibera doveva essere adottata all’unanimità, riguardando la rinuncia ad un servizio comune.

La Corte di Cassazione ha precisato in particolare come la normativa di contenimento del consumo energetico ha, innovando, previsto che la soppressione del servizio centralizzato di riscaldamento condominiale possa avvenire anche con una delibera a maggioranza (stante la pacifica interpretazione della giurisprudenza che ha sempre preteso per una delibera di rinuncia ad un bene o un servizio comune l’approvazione unanime dei condomini), ma ciò a condizione che la delibera si colleghi ad un progetto di trasformazione in impianti autonomi tali da garantire il risparmio energetico (pur non essendo necessaria la presenza di un progetto esecutivo):

Chiariti i principi che regolano la materia, anche alla stregua della successione delle leggi vigenti, nondimeno, la delibera che dispone l’eliminazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato per far luogo ad impianti autonomi nei singoli appartamenti, in tanto può essere adottata a maggioranza, e quindi in deroga agli artt. 1120 e 1136 c.c., in quanto sia previsto che avvenga nel rispetto delle previsioni legislative di cui alla legge n. 10/1991, ossia a garanzia sull’an e sul quomodo della riduzione del consumo specifico di energia, del miglioramento dell’efficienza energetica, dell’utilizzo di fonti di energia rinnovabili (pur non dovendo curarne previamente l’esecuzione).

Nella specie, invece, non soltanto non è stato previsto quanto richiesto dalla lett. g) dell’art. 8 della legge – che consente la trasformazione degli impianti centralizzati in unifamiliari a gas per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria dotati di sistema automatico di regolazione della temperatura, con determinazione dei consumi per le singole unità immobiliari -, ma in aggiunta ciascun condomino è stato, altresì, autorizzato a provvedere autonomamente ad installare l’impianto ritenuto più opportuno, senza alcun vincolo o indirizzo sui termini di detta conversione.”.

E inoltre: “Sicché, in realtà, non si tratta di una delibera che dispone la trasformazione o sostituzione – dettando il conseguente passaggio allo scopo di assicurare il risparmio energetico e la tutela ambientale – dell’impianto centralizzato in impianti autonomi, limitandosi essa, invece, a disporre il mero profilo soppressivo o abdicativo dell’impianto 25 centralizzato e rimettendo ai singoli condòmini la facoltà di dotarsi di impianti autonomi, in base alle loro scelte e senza alcuna previa indicazione.

Avrebbe dovuto, invece, prevedersi che fosse il condominio, che ne aveva titolo perché proprietario di tutte le parti comuni dell’intero edificio, compreso l’impianto di riscaldamento centralizzato, a dover eseguire e depositare in Comune il progetto di trasformazione dello stesso, con indicazione di tutte le opere necessarie al contenimento del consumo energetico dell’intero edificio, corredate dalla richiesta relazione tecnica attestante la rispondenza della trasformazione alle prescrizioni di legge, sia  pure con modalità semplificate, ove tanto fosse stato previsto dalle autorità locali, sino a restringerne il contenuto ai soli elementi identificativi dell’impianto e del generatore installato (come suggerisce la circolare del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato del 13 dicembre 1993, n. 231/F in Gazzetta Ufficiale n. 297, serie generale, parte prima, del 20 dicembre 1993).

E ciò sebbene a tale previsione nella delibera non dovesse associarsi la previa progettazione, rimessa invece alla successiva fase esecutiva.

L’accertamento della nullità della delibera anche dopo molti anni dalla sua adozione e su istanza di chiunque vi abbia interesse

Nel caso in questione, tale progetto non vi era, ma la delibera era di mera soppressione, lasciando liberi i condomini di realizzare gli impianti autonomi senza alcuna programmazione tecnica di sorta. Ne derivava la invalidità della delibera, che rientrando nelle ipotesi di nullità ben poteva essere dichiarata a distanza di molti anni dalla sua adozione e attuazione, su istanza perfino di un attuale condomino, e anche se costui fosse stato un acquirente da un condomino che all’epoca avesse votato a favore della delibera, secondo il noto principio che le nullità sono accertabili in ogni tempo e su istanza di chiunque vi abbia interesse.

In tal senso si è espressa una sentenza della Cassazione n. 12235 del 14.6.2016 relativa ad una azione proposta dall’acquirente di un appartamento dopo tre anni dal suo acquisto e nonostante che il venditore avesse votato a suo tempo a favore della delibera.

La richiesta di ripristino del servizio di riscaldamento centralizzato: esclusa la eccessiva onerosità e l’abuso del diritto

Ma la vicenda è giunta presso i Giudici di Piazza Cavour soprattutto perché la Corte di Appello piemontese, pur dopo aver accertato la nullità della delibera soppressiva del servizio di riscaldamento, aveva ritenuto emulativa e non meritevole di accoglimento, la richiesta dei nuovi condomini che avevano proposto la causa di condannare il Condominio al ripristino del servizio.

La Corte di Cassazione ha spiegato che trattandosi del ripristino di un servizio condominiale soppresso illegittimamente, non può parlarsi di attività emulativa o comunque eccessivamente onerosa, avendo i ricorrenti diritto a vedersi reintegrati nelle loro complete facoltà di condomini, nonostante che questo possa avere dei costi elevati, compreso quello del ripristino per i condomini nel frattempo già munitisi di impianti autonomi unifamiliari:

Infatti, alla declaratoria di nullità segue la piena legittimità della pretesa del condomino al ripristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato, soppresso dall’assemblea dei condòmini con delibera dichiarata nulla. E ciò perché non può essere considerata l’onerosità per gli altri condòmini, nel frattempo dotatisi di impianti autonomi unifamiliari, della realizzazione delle opere necessarie a tale ripristino, o l’eventuale possibilità per il condomino di ottenere, a titolo di risarcimento del danno, il ristoro del costo necessario alla realizzazione di un impianto di riscaldamento autonomo.“.

Né può parlarsi di abuso del diritto non potendosi confrontare l’utilità ritraibile dalla condomina con il disagio arrecato agli altri partecipanti al condominio: “Non può, infatti, ritenersi integrato l’abuso del diritto da parte dell’attrice, in quanto la decisione impugnata si basa su un inammissibile giudizio di proporzionalità fra l’utilità conseguibile dalla condomina e l’onerosità che ne sarebbe derivata ai condòmini (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1209 del 22/01/2016; sui limiti degli atti emulativi Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7562 del 18/03/2019; Sez. 2, Sentenza n. 12688 del 19/05/2017).”.

Conformi le decisioni di Cassazione 22.1.2016 n. 1209 e Cassazione 14.6.2016, n. 12235. Per precedenti in sede di merito si ricorda Tribunale di Roma, 30.7.2019, n. 15836.

Il costo del ripristino e la responsabilità (contrattuale) del Presidente dell’Assemblea e dell’Amministratore che hanno validato e posto in esecuzione la delibera nulla

Unico aspetto non esaminato dalla Corte è su chi debbano ricadere in definitiva i costi del ripristino, visto che in prima battuta saranno a carico dei condomini attuali (eccezion fatta per il vincitore della lite).

La nullità della delibera doveva essere rilevata in primo luogo dal Presidente dell’Assemblea che ha dichiarato approvata tale delibera (per applicazione analogica della norma circa le sue funzioni ex art. 2371 Cod. Civ.), e in secondo luogo doveva essere rilevata dall’Amministratore di Condominio dell’epoca che ha invece omesso tale rilevazione e ha dato attuazione alla stessa. Il titolo della responsabilità è contrattuale, svolgendo in entrambi i casi una attività, la prima gratuita, e la seconda onerosa, a favore del Condominio; con la conseguenza che la prescrizione sarà quella ordinaria decennale.

Avv. Giorgio Falini

Per una analisi legale specifica della vostra situazione giuridica, è possibile prenotare un colloquio orientativo gratuito, in forma del tutto riservata, in Studio o a distanza (via telefono o videochiamata)

 

notifica via pec

Notifica via pec della intimazione di sfratto

 

La notifica via pec della intimazione di sfratto esonera dall’invio della raccomandata ex art. 660 Cod. Proc. Civ.

A seguito della introduzione nel nostro ordinamento della possibilità della notifica diretta da parte degli avvocati a mezzo dell’uso della PEC, posta elettronica certificata, ci si è domandati se la notifica della intimazione di sfratto per finita locazione o per morosità (come anche della licenza per finita locazione), ove eseguita a mezzo pec, obblighi comunque all’invio della raccomandata ex art. 660 Cod. Proc. Civ.

Invero, ove ciò dovesse accadere, sarebbe del tutto inutile eseguire la notifica via pec, visto che l’ufficiale giudiziario invia la raccomandata in parola solo dopo che lui ha eseguito la notifica, non a mani proprie, dell’atto.

Ma la notifica pec equivale a notifica a mani proprie, come prevista dal codice di rito.

La risposta è stata data in senso negativo dal Tribunale di Modena, ord. 23 Luglio 2014, e, per contro, in senso positivo, da Tribunale di Frosinone, sent. 22.3.2016, con ampia e convincente motivazione.

Medesima convinzione è stata espressa dal Tribunale di Roma, con ord. 13.3.2018, ove tenuto conto degli effetti riconnessi dalla legge al procedimento di notificazione a mezzo pec, si è ritenuto che possa considerarsi avvenuta a mani proprie la notifica a mezzo pec, restando comunque irrilevante la mancata conoscenza concreta della notifica, ove il notificato non abbia cura di consultare la propria casella pec, atteso che tale consultazione (giornaliera) costituisce comunque un onere derivante dall’obbligo di disporre di tale casella (ad esempio per i soggetti tenuti alla iscrizione nel registro delle imprese, e per i professionisti iscritti ad Albi o Collegi).

Tale convincimento è adesso condiviso dalla intera sezione, come risulta dalle Regole di Condotta rese note dalla Sezione stessa, in relazione alle vertenze in materia di locazione, presenti sul sito del Tribunale stesso.

Tale validità rende invero assai più celere il procedimento, atteso che in tal modo il rispetto del termine di comparizione di 20 giorni viene del tutto favorito, e la parte istante può, appena effettuata la notifica, iscrivere a ruolo la causa, velocizzando l’assegnazione della stessa al Giudice e favorendo la conferma della data di udienza.

Avv. Giorgio Falini

Per una analisi legale specifica della vostra situazione giuridica, è possibile prenotare un colloquio orientativo gratuito, in forma del tutto riservata, in Studio o a distanza (via telefono o videochiamata)

 

assemblea condominiale

Assemblea condominiale – Esclusione condomino in lite?

 

All’Assemblea condominiale che delibera di agire o difendersi giudizialmente avverso un Condomino, questi deve essere convocato?

Capita che un condomino sia in lite con il condominio, avendo ad esempio proposto  impugnazione contro una delibera assembleare, ovvero in quanto il Condominio intenda proporre nei suoi confronti una azione in giudizio per recupero crediti ovvero per altra ragione (ad esempio occupazione di aree condominiali, violazione del regolamento di condominio o di norme di legge, attività di immissioni oltre la normale tollerabilità, etc.).

Diritto alla convocazione, diritto alla partecipazione e diritto alla votazione

E’ sorta questione se il Condomino, che abbia proposto la lite, ovvero contro il quale il Condominio debba promuoverla, abbia diritto a partecipare o meno alla Assemblea condominiale che dovrà decidere su quale atteggiamento adottare nei confronti di tale lite.

La giurisprudenza di merito aveva escluso il suo diritto a partecipare alla votazione relativa alla deliberazione di promovimento di una lite nei suoi confronti, applicando per analogia la disciplina sul conflitto di interessi dettata in materia societaria dall’art. 2373 Cod. Civ. (Trib. Pescara, 30.7.2003).

La Corte di Cassazione, con recentissima ordinanza del 2.2.2023 n. 3192,

ha ritenuto che non possa applicarsi tale disciplina, atteso che la stessa si riferisce ad un conflitto che si presenta all’interno della compagine condominiale (si pensi alla votazione sul rendiconto dell’amministratore che sia anche condomino, ove costui dovrà ovviamente astenersi, come precisa Cass. 28.9.2015, n. 19131).

Ma si debba invece ritenere che il Condomino in lite (pendente o sulla quale debba decidersi) sia un “centro di interessi” estraneo e non possa dunque neppure partecipare alle Assemblee che debba decidere in ordine alla lite., “venendosi la compagine condominiale a scindere di fronte al particolare oggetto della lite in base ai contrapposti interessi, non sussiste il diritto del singolo (in quanto portatore unicamente di un interesse contrario a quello rimesso alla gestione collegiale) a partecipare all’assemble”.

E ciò è del tutto logico, ove si consideri come lo stesso non possa essere chiamato a partecipare alle spese di lite sostenute dal condominio (come da giurisprudenza costante, che ha considerato invalide le delibere relative).

In particolare non può lamentarsi di non essere stato almeno invitato a partecipare all’Assemblea di condominio, salvo poi non partecipare alla votazione,

atteso che “non esiste un distinto diritto alla convocazione per la sola fase preparatoria della riunione, consistente nel dibattito antecedente al momento deliberativo, in quanto l’intervento del partecipante nella discussione (al di fuori della peculiare ipotesi prevista dall’art. 10, comma 2, legge 27 luglio 1978, n. 392) è finalizzato a portare a conoscenza degli altri presenti le ragioni del proprio voto di assenso o dissenso sull’argomento contenuto nell’ordine del giorno.” (Cass. cit. 3192/23).

Recente applicazione del principio come sopra enunciato dalla Corte di legittimità si rinviene nella decisione della Corte di Appello di Milano, sentenza n. 891 del 15.2.2023, ove viene rigettato l’appello proposto contro la decisione del Tribunale di Como dell’8.6.2021 che aveva rilevato inammissibile la impugnativa della delibera della assemblea del 19.4.2018 per carenza di interesse.

Un consiglio operativo

Nella pratica, ove sia necessario deliberare in ordine ad una lite con un condomino, appare raccomandabile per l’Amministratore convocare una Assemblea apposita con solo tale punto all’Ordine del Giorno, atteso che altrimenti – in caso di più punti all’Ordine del Giorno – al momento in cui tale punto fosse trattato,  il Condomino in contrasto dovrebbe spontaneamente allontanarsi dalla Assemblea condominiale ovvero essere allontanato su disposizione del Presidente che regola la stessa, e essere riammesso solo dopo la ultimazione della trattazione del punto all’O.d.G., ove fossero presenti ulteriori punti da trattare (mentre appare inopportuno inserirlo come ultimo punto, per il rischio di sopravvenuta mancanza del numero legale per valide delibere).

Avv. Giorgio Falini

Per una analisi legale specifica della vostra situazione giuridica, è possibile prenotare un colloquio orientativo gratuito, in forma del tutto riservata, in Studio o a distanza (via telefono o videochiamata)

contratto di locazione

Immobile danneggiato dopo scadenza contratto di locazione?

Locazioni: che fare se, alla scadenza del contratto di locazione, l’immobile risulta gravemente danneggiato

Quali opzioni ha il locatore, quando alla scadenza del contratto di affitto, scopre che l’immobile è gravemente danneggiato, oppure presenta innovazioni contrattualmente non consentite?

Alla scadenza del contratto di affitto, i proprietari di casa hanno a volte delle brutte sorprese, trovando il loro immobile gravemente danneggiato, oppure con rilevanti innovazioni che il contratto di locazione non consente.

PUO’ IN QUESTI CASI IL PROPRIETARIO RIFIUTARE DI PRENDERE IN CONSEGNA L’IMMOBILE E SINO A QUANDO?

Sul punto è intervenuta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione che ha dato risposta affermativa alla domanda (Cassazione con ordinanza 23 settembre 2022, n. 27932).

In caso di immobile gravemente danneggiato o con modificazioni non consentite, il proprietario, alla scadenza del contratto, può rifiutare la consegna dell’immobile offerta dal conduttore, sin quando quest’ultimo non risarcisca i danni apportati e/o elimini le innovazioni non consentite

QUALI SONO LE CONSEGUENZE PER IL CONDUTTORE?

Dal momento che il rifiuto del locatore nel prendere in consegna il bene, nonostante la scadenza del contratto, trova la sua giustificazione nel mancato  pagamento da parte del conduttore dell’importo necessario a risarcire i danni, quest’ultimo, malgrado l’offerta di riconsegna l’immobile, rimane, sin quando non effettua il detto pagamento, comunque in mora nella restituzione bene.

Questa mora comporta che il conduttore sia tenuto a corrispondere il canone di locazione sin quando non saldi quando necessario all’eliminazione dei danni e/o delle innovazioni, anche se l’immobile locato non sia più in suo uso.

Ne consegue come il locatore – avendo diritto tanto al pagamento dell’importo idoneo ad eliminare i danni e/o le innovazioni, quanto al pagamento del canone, di locazione sin quando questo importo non venga pagato – riesca in tal modo ad essere totalmente indennizzato.

COSA ACCADE SE IL PROPRIETARIO, ALLA SCADENZA DEL CONTRATTO, RITIENE DI PRENDERE COMUNQUE IN CONSEGNA IL BENE, MALGRADO LO STESSO PRESENTI DEI DANNI RILEVANTI

Se il locatore, alla scadenza del contratto, malgrado la presenza di rilevanti danni all’interno dell’immobile, che vanno ben al di là del normale stato di usura, e che non gli consentono di rilocare il bene nell’immediatezza, decide di prenderlo ugualmente in consegna, in questo caso egli avrà diritto non solo al risarcimento del danno, ma anche al pagamento dei canoni di locazione da parte del conduttore, malgrado lo stesso abbia riconsegnato il bene.

La giurisprudenza della Suprema Corte è, invero, sul punto consolidata nel ritenere che il conduttore debba, nel caso di specie, non solo corrispondere al locatore le somme necessarie ad eliminare i danni dallo stesso arrecati, ma sia, altresì, tenuto a pagare, nonostante non ne usufruisca più, il canone di locazione per tutto il tempo necessario alla ristrutturazione dell’immobile, purché tempestivamente iniziata e diligentemente perseguita.

Si aggiunga, infine, come l’obbligo del conduttore del pagamento del canone, nell’ipotesi in parola, non sia subordinata alla prova da parte del locatore di aver ricevuto – da parte di terzi – richieste di locazione, cui non ha potuto dare seguito a causa dei lavori da svolgersi, essendo detto pagamento dovuto per il solo fatto dell’intervenuto danneggiamento: ex multis Cass. ordinanza n. 6596 del 2019 “ Qualora, in violazione dell’art. 1590 cod. civ., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto – da p arte di terzi – richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori.

Avv. Paola Martino

Se sei alle prese con le problematiche di cui al presente articolo, ovvero con altre analoghe, prenota un colloquio orientativo gratuito con lo Studio, per illustrare le tue questioni e conoscere le possibili soluzioni del tuo caso.

spese condominiali

Spese Condominiali- coniuge assegnatario casa coniugale

Spese Condominiali – Nessuna Azione Diretta dell’Amministratore nei confronti del Coniuge Assegnatario della Casa Coniugale

Il coniuge, al quale in sede di separazione e/o di divorzio venga disposta l’assegnazione della casa coniugale in ragione della presenza di figli minorenni e/o non economicamente autosufficienti e che non sia titolare di alcuna quota di proprietà della casa medesima, diviene titolare, sull’abitazione, unicamente di un diritto personale di godimento, opponibile ai terzi.

Dal momento che, per recupero dei contributi relativi la manutenzione e l’esercizio delle parti e dei servizi comuni, si può validamente agire sono nei confronti dell’effettivo condomino – cioè del proprietario dell’immobile o del titolare del diritto reale sull’immobile medesimo – l’Amministratore di condominio potrà agire in via giudiziaria solo nei confronti del coniuge proprietario dell’immobile, mentre alcuna azione è consentita nei confronti dei coniuge mero assegnatario.

Così ha statuito una recentissima ordinanza del maggio del 2022 della Suprema Corte di Cassazione, che ha ritenuto che nei rapporti fra Condominio e singoli partecipanti ad esso, non vi siano le condizioni per l’operatività del principio  dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede.

Pertanto, sebbene il coniuge assegnatario della casa possa apparire come condomino a tutti gli effetti, ciò non muta la sua condizione di mero titolare di un diritto di godimento, con conseguente difetto di legittimazione passiva nel giudizio intentato dall’Amministratore per il recupero delle spese condominiali.

La Suprema Corte ha, però, d’altra parte, precisato che, sebbene il godimento della casa coniugale sia  caratterizzata da un’essenziale gratuità –  nel senso che il coniuge assegnatario non è tenuto a corrispondere  all’altro coniuge, alcunché per detto godimento –  è altresì vero che le spese correlate all’uso dell’immobile assegnato sono, in ogni caso di sua competenza, salvo che il Giudice della separazione e/o del divorzio non le ponga a carico dell’altro coniuge, come, ad esempio, contributo al mantenimento del coniuge assegnatario.

Ciò significa che, ove il coniuge assegnatario della casa non corrisponda dette spese e l’Amministratore del Condominio sia costretto a rivolgersi al coniuge proprietario per recuperarle, quest’ultimo potrà poi agire nei confronti del coniuge assegnatario per ottenere il rimborso di tutto quanto corrisposto all’Amministratore per effetto della relativa azione giudiziaria.

Avv. Paola Martino

****

Se sei alle prese con le problematiche di cui al presente articolo, ovvero con altre analoghe, prenota un colloquio orientativo gratuito con lo Studio, per illustrare le tue questioni e conoscere le possibili soluzioni del tuo caso.

delibere condominiali

Impugnazione delibere condominiali e termini di decadenza

Impugnazione delle delibere condominiali: il difficile rapporto tra mediazione e termini di decadenza

Mentre le delibere condominiali nulle possono essere impugnate in ogni tempo (salva la prescrizione e l’usucapione) le delibere condominiali annullabili (per la distinzione si veda Cass. SS.UU. sent. 9839 del 14.4.2021; Cass. SS.UU. sent. 4806 del 7.3.2005) possono essere impugnate (da chi non abbia votato a favore) dinanzi all’autorità giudiziaria entro il termine di decadenza di 30 giorni decorrenti dalla data di adozione, per i presenti (sia di persona che per delega), o dalla data di comunicazione del relativo verbale, per gli assenti.

A seguito della introduzione anche in Italia dell’istituto della mediazione civile e commerciale (D.Lgs. n. 28 del 2010), si è stabilito che per alcune materie l’esperimento del procedimento di mediazione fosse obbligatorio, di guisa che il procedimento dinanzi al Giudice non potesse essere portato avanti se non dopo tale esperimento. Tra tali materie vi è quella del condominio, e pacificamente si ricomprendono in tale materia le controversie relative alla impugnazione delle delibere assembleari annullabili.

Conseguentemente nel suddetto termine di decadenza di 30 giorni occorre dar corso alla procedura di mediazione. Tale procedura impedisce la decadenza suddetta e ove la stessa si concluda positivamente, si sarà raggiunto lo scopo della nuova disciplina, ossia ridurre il contenzioso nelle aule di giustizia; ove si concluda negativamente, dal deposito del verbale di accertamento di tale esito negativo, decorrerà un nuovo termine di 30 giorni per introdurre la lite dinanzi al Giudice (cfr. Sentenza Tribunale Brescia, sent. 648 del 18.3.2020; Trib. Sondrio, sent. 25.1.2019; Trib. Monza, sent. 65 del 12.1.2016).

Il procedimento di mediazione deve concludersi entro 90 giorni (salvo che le parti concordemente intendano prorogare tale termine) dalla data di deposito della domanda di mediazione (art. 6).

L’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 succitato stabilisce che: “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale di cui all’art. 11 presso la segreteria dell’Organismo” (di Mediazione).

L’art. 8 stabilisce che: “1. All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante.”.

Per il combinato disposto dei due articoli precedenti, la comunicazione che produce gli effetti di interrompere la prescrizione e di evitare la decadenza è quella con la quale l’Organismo comunica la domanda e la data del primo incontro. Tale comunicazione può avvenire anche a cura della parte istante.

Ma cosa accade se la domanda di mediazione è proposta nel termine di decadenza, ma la comunicazione della stessa e della data del primo incontro sono comunicate dopo tale termine? Ovvero come impedire la decadenza?

scadenza mediazione

E’ necessaria la comunicazione della istanza e dalla fissazione della data dell’incontro nel termine di decadenza o di prescrizione

Una prima interpretazione si limita al dato temporale, e quindi ritiene che solo se la comunicazione (della domanda e della data dell’incontro) perviene entro i 30 giorni si evita la decadenza. E tale interpretazione poggia anche sul fatto che tale comunicazione potrebbe avvenire anche a cura della parte istante, come recita la norma di legge (cfr. Trib Roma, sent. 3159 del 23.2.2021, che richiama App Genova sent. 946 del 2018 e Trib. Napoli, sent. 4.12.2019, richiamando la previsione della notifica a cura della parte ex art. 6. Co 1, D.Lgs. 28 del 2010; conformi anche App. Milano, sent. 253 del 27.1.2020; Trib. Savona, sent. 111 del 8.2.2019; Cass. sent. 2273 del 28.1.2019; Trib. Genova, sent, 1665 del 11.6.2018; Trib. Ivrea, sent. 348 del 6.4.2018; App. Palermo sent. 27.6.2017; Trib. Messina, sent. 72 del 11.1.2018; Trib. Palermo, sent. 18.9.2015; in specie Trib. Roma, sent. 20267 del 22.10.2019, come i precedenti, parla proprio di comunicazione sia della domanda che della data dell’incontro). Tuttavia è evidente che se la domanda di mediazione viene presentata l’ultimo giorno utile o quelli precedenti si avrebbe una corsa contro il tempo per far nominare il mediatore, far accettare a costui la nomina e far fissare da costui la data dell’incontro, per poter poi, finalmente, procedere alla notifica. In sostanza si avrebbe una “sostanziale” riduzione del termine per evitare la decadenza, peraltro rimessa alla diligenza dell’Organismo di Mediazione scelto.

E’ sufficiente la comunicazione della sola istanza nel termine di decadenza o di prescrizione

Una seconda interpretazione, per evitare la decadenza, considera valida la comunicazione della sola domanda, ovviamente eseguita dalla parte istante, atteso che attendere la fissazione della data dell’incontro e poi la comunicazione rischia di far maturare la decadenza (cfr. Trib. Busto Arsizio, sent. 23.4.2021; App. Milano, sent. 253 del 27.1.2020: Trib. Roma, sent. 13981 del 3.7.2019; Trib. Torino, sent. 1451 del 23.3.2018; Trib Chieti – sez. Ortona, sent.3 del 15.1.2018; Trib. Napoli, sent. 10959 del 7.11.2017; Trib. Savona, sent. 2.3.2014). Ma siffatto modo di procedere non tiene conto del fatto che la norma parla di comunicazione della domanda e della data del primo incontro, e quindi la comunicazione della sola domanda appare meno di quanto la legge richiede per impedire la decadenza. Inoltre, entro quando la domanda dovrebbe essere poi depositata? Il giorno stesso o quello dopo o entro il termine di decadenza? Evidente l’arbitrio che ne nascerebbe.

E’ sufficiente il solo deposito della istanza nel termine di decadenza o di prescrizione

Una terza interpretazione ritiene che possa considerarsi idonea a evitare la decadenza il solo deposito della domanda, o meglio che il solo deposito, purché seguito dalla successiva comunicazione del ricorso e della data di incontro, sia idoneo a dare inizio al procedimento di comunicazione considerato dalla legge ai fini di evitare la decadenza.

A favore di tale interpretazione militano vari argomenti, il primo dei quali è la similitudine con il procedimento notificatorio, ove per il notificante il rispetto di eventuali termini di decadenza o di prescrizione viene valutato in relazione all’inizio del procedimento stesso o meglio a quanto costui debba fare, senza tener conto dei tempi di coloro che eseguono la notificazione e sono soggetti fuori del controllo del notificante, mentre per il notificato i termini a beneficio e a carico dello stesso sono calcolati dalla data di effettivo completamento del procedimento notificatorio (così Corte Costituzionale, sent. 26.11.2002, n. 477; Cassazione SS.UU. sent. 14.4.2011, n. 8491)). Tale componimento degli interessi contrapposti vale anche per il procedimento di mediazione, ove, specie per quello in materia di impugnazione di delibere condominiali, si adduce l’interesse del condominio alla stabilità delle delibere come motivo di interpretazione “restrittiva” del termine dei 30 giorni, ma l’imposizione di tale ulteriore onere a carico del ricorrente (ossia l’esperimento obbligatorio del procedimento di mediazione) deve essere correttamente interpretato e giustificato (a favore di tale ragione per la scelta interpretazione qui offerta cfr. Trib. Brescia, sent. 648 del 18.3.2020; Trib. Roma, sent. 16.7.2020; Trib. Sondrio, sent. 25.1.2019; Trib. Savona, sent. 1091 del 23.10.2018; App. Brescia, sent. 133 del 30.7.2018; Trib. Palermo, sent. 4870 del 20.9.2017; Trib. Firenze, sent. 2718 del 19.7.2016; Trib. Velletri, sent. 1586 del 5.5.2015; Trib. Palermo, sent. 4951 del 2015).

In secondo luogo, la norma di legge che prevede la durata della procedura di mediazione considera come momento iniziale la data di deposito della domanda. Ma che senso avrebbe una siffatta previsione ove, ad esempio, per problemi di notifica la domanda e l’invito dovessero essere notificati dopo svariati giorni? Il senso della norma risiede nel non voler differire sine die il termine di un procedimento che è congegnato come impeditivo della trattazione delle cause da parte del Giudice. Ma allora a maggior ragione la proposizione della domanda vale a interrompere la decadenza e la prescrizione, alla quale farà seguito la effettiva comunicazione.

In terzo luogo, vi è il corretto recepimento della Direttiva 2008/52 CEE, ove all’art. 8, sotto la rubrica “effetto della mediazione sui termini di prescrizione e decadenza”, afferma che “gli Stati membri provvedono affinché alle parti, che scelgono la mediazione nel tentativo di dirimere una controversia, non sia successivamente impedito di avviare un procedimento giudiziario o di arbitrato in relazione a tale controversi per il fatto che durante il procedimento di mediazione siano scaduti i termini di prescrizione o decadenza”.

Ne segue che la stretta interpretazione della norma circa la comunicazione come fatto che interrompe i termini di decadenza e di prescrizione, ove sia slegato al deposito della istanza di mediazione, quale atto introduttivo del procedimento stesso, contrasta apertamente con la suddetta direttiva comunitaria, la quale nella sua essenzialità e semplicità afferma che l’intraprendere un procedimento di mediazione (ossia il presentare la relativa domanda) impedisce ogni decadenza e prescrizione durante il procedimento stesso. Con la ovvia conseguenza che la normativa nazionale – ove contrastante – debba essere disapplicata, e quindi considerata tamquam non esset.

In quarto luogo, vi è un argomento logico funzionale, relativo alla utilità della disciplina della mediazione ai fini della riduzione del contenzioso giudiziario. Nel timore che l’Organismo di Mediazione non eseguisse la comunicazione nel termine di decadenza, specialmente ove la domanda fosse presentata nella seconda quindicina del periodo, il ricorrente sarebbe indotto per cautela a proporre direttamente il giudizio, evitando ogni decadenza, e in tal sede, ove fosse sollevata la relativa eccezione o rilevata la questione d’ufficio, potrebbe poi beneficiare del termine per introdurre il procedimento (che, nota bene, si intende introdotto con il solo deposito della istanzaargumenta ex art. 5 D. Lgs. 28/2010  – , e dunque rendendo ormai ancor più irrilevante data della la successiva comunicazione), ma così gravando i ruoli di procedimenti potenzialmente inutili.

In conclusione, l’unica interpretazione della disciplina giuridica del rapporto tra mediazione e decadenza in materia di impugnazione delle delibere condominiali annullabili ragionevole, compatibile con lo spirito della nostra Costituzione e conforme alle direttive comunitarie, risulta quella secondo la quale la decadenza è evitata ove la domanda sia presentata ad un Organismo di Mediazione entro il termine di 30 giorni.

Avv. Giorgio Falini 

condividi :