Author Archives: maria testa

conto corrente cointestato

Conto Corrente Cointestato – Morte di uno dei due Titolari

In caso di rapporti di conto corrente cointestati è illegittimo il relativo blocco da parte degli Istituti di Credito in caso di decesso di uno dei due titolari.

In presenza di un conto corrente cointestato, in caso di morte di uno dei due titolari, gli Istituti di credito procedono usualmente al blocco del conto corrente medesimo, senza peraltro darne notizia all’altro cointestatario che si ritrova, da un giorno all’altro, estromesso dallo stesso, privato della possibilità di accedere ai suoi stessi soldi, stante la sospensione generalizzata di tutti i servizi bancari.

Ma è legittimo il blocco del conto cointestato corrente in caso di decesso di uno dei due titolari da parte dell’istituto di credito?

La risposta è no. 

La giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza n. 7862/2021) è costante nell’affermare che nel caso di  cointestazione di un conto corrente /deposito bancario,  ove i cointestatari abbiano il potere di compiere disgiuntamente tutte le operazioni attive e passive, questo potere permane sino all’estinzione del rapporto, anche in caso di morte di uno dei due titolari, in quanto  la cointestazione del conto dà luogo ad una solidarietà dal lato attivo dell’obbligazione, che permane anche a seguito di morte di uno dei due titolari.

Cosa comporta il permanere di questa solidarietà attiva, a seguito della morte di uno dei due intestatari del conto?

Il permanere di questa solidarietà attiva comporta che il titolare superstite possa prelevare l’intero importo presente sul conto, senza che l’istituto di credito possa opporsi, invocando le norme sulle successioni.

L’istituto di credito, infatti, corrispondendo l’intero saldo al titolare superstite si libera di ogni obbligazione nei confronti degli eredi e non può essere chiamato a rispondere delle somme prelevate dal cointestatario, anche se si tratta dell’intero saldo presente sul conto.

Cosa fare nel caso in cui l’istituto di credito non voglia procedere allo sblocco del conto corrente?

È possibile proporre un ricorso per provvedimento di urgenza ex art. 700 Cod.Proc. Civ., facendo precedere questo ricorso da una diffida alla banca da parte dell’Avvocato di vostra fiducia, dal momento che in alcuni casi una diffida ben confezionata è idonea a sbloccare la situazione, evitando in tal modo il ricorso all’Autorità giudiziaria.

Ove la diffida non produca l’effetto sperato, il procedimento d’urgenza ex art. 700 Cod.Proc. Civ consente di ottenere in tempi ragionevolmente brevi,  sia la liquidazione dell’intero saldo del conto, sia volendolo,  la riattivazione dei servizi bancari bloccati.

Per poter procedere in tal senso è necessario, però, che vi sia il requisito del periculum in mora. È cioè necessario  che al titolare superstite derivi  dal blocco del conto corrente un danno grave ed irreparabile, che non gli consente di attendere i tempi più lunghi di un giudizio ordinario (cfr Tribunale Catanzaro, ord. 29 giugno 2022) .

Questo danno grave ed irreversibile si può ravvisare, ad esempio nel caso in cui il titolare superstite disponga solo di quel conto, sul quale confluiscono tutti i suoi proventi, il cui blocco gli impedisce, conseguentemente, di poter prelevare denaro per provvedere alle esigenze del vivere quotidiano.

Avv. Paola Martino

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spese condominiali

Spese Condominiali- coniuge assegnatario casa coniugale

Spese Condominiali – Nessuna Azione Diretta dell’Amministratore nei confronti del Coniuge Assegnatario della Casa Coniugale

Il coniuge, al quale in sede di separazione e/o di divorzio venga disposta l’assegnazione della casa coniugale in ragione della presenza di figli minorenni e/o non economicamente autosufficienti e che non sia titolare di alcuna quota di proprietà della casa medesima, diviene titolare, sull’abitazione, unicamente di un diritto personale di godimento, opponibile ai terzi.

Dal momento che, per recupero dei contributi relativi la manutenzione e l’esercizio delle parti e dei servizi comuni, si può validamente agire sono nei confronti dell’effettivo condomino – cioè del proprietario dell’immobile o del titolare del diritto reale sull’immobile medesimo – l’Amministratore di condominio potrà agire in via giudiziaria solo nei confronti del coniuge proprietario dell’immobile, mentre alcuna azione è consentita nei confronti dei coniuge mero assegnatario.

Così ha statuito una recentissima ordinanza del maggio del 2022 della Suprema Corte di Cassazione, che ha ritenuto che nei rapporti fra Condominio e singoli partecipanti ad esso, non vi siano le condizioni per l’operatività del principio  dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede.

Pertanto, sebbene il coniuge assegnatario della casa possa apparire come condomino a tutti gli effetti, ciò non muta la sua condizione di mero titolare di un diritto di godimento, con conseguente difetto di legittimazione passiva nel giudizio intentato dall’Amministratore per il recupero delle spese condominiali.

La Suprema Corte ha, però, d’altra parte, precisato che, sebbene il godimento della casa coniugale sia  caratterizzata da un’essenziale gratuità –  nel senso che il coniuge assegnatario non è tenuto a corrispondere  all’altro coniuge, alcunché per detto godimento –  è altresì vero che le spese correlate all’uso dell’immobile assegnato sono, in ogni caso di sua competenza, salvo che il Giudice della separazione e/o del divorzio non le ponga a carico dell’altro coniuge, come, ad esempio, contributo al mantenimento del coniuge assegnatario.

Ciò significa che, ove il coniuge assegnatario della casa non corrisponda dette spese e l’Amministratore del Condominio sia costretto a rivolgersi al coniuge proprietario per recuperarle, quest’ultimo potrà poi agire nei confronti del coniuge assegnatario per ottenere il rimborso di tutto quanto corrisposto all’Amministratore per effetto della relativa azione giudiziaria.

Avv. Paola Martino

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assegno divorzile

Assegno Divorzile, recentissima sentenza Corte di Cassazione

Cessazione o revisione dell’Assegno Divorzile a seguito di instaurazione di una nuova stabile convivenza
Gli ultimi orientamenti della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza, ha escluso che la comprovata instaurazione, successivamente allo scioglimento del matrimonio, di una convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno, comporti automaticamente la perdita del medesimo assegno divorzile, ovvero la relativa riduzione, purché ricorrano determinate condizioni.
Questo il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, cui i giudici di merito, in situazioni analoghe, dovranno sostanzialmente uniformarsi:

“L’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno.
Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche all’attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge, in funzione esclusivamente compensativa.
A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge.
Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniale nè alla nuova condizione di vita dell’ex coniuge ma deve essere quantificato alla luce dei principi suesposti, tenuto conto, altresì della durata del matrimonio“.

Esaminiamone, punto per punto, il significato.
La Corte di Cassazione nella sentenza in commento esclude che la instaurazione di una stabile convivenza di fatto comporti automaticamente il venir meno dell’assegno divorzile ove ricorrano due sostanziali condizioni in capo al coniuge economicamente più debole, che richiede il permanere di detto assegno, ovvero che si opponga alla relativa riduzione.
La prima condizione è l’ex coniuge beneficiario sia privo di mezzi adeguati per il proprio mantenimento e si trovi nella impossibilità incolpevole di procurarseli e che questa mancanza di mezzi adeguati sia imputabile a sue scelte personali – quali la rinuncia ad effettive possibilità di carriera e di crescita professionale – fatte in condivisione con l’altro coniuge all’interno di un progetto comune, a beneficio dell’unione familiare.
In altri termini, è necessario che la condizione di maggiore debolezza di uno dei due ex coniugi derivi da relative pregresse scelte di vita, fatte in funzione della famiglia e del benessere anche economico di quest’ultima.
La seconda condizione è correlata alla prima, ovvero è necessario che l’assegno divorzile sia stato riconosciuto al coniuge più debole, ma comunque economicamente autosufficiente, in quanto la sua maggiore debolezza economica trovi la sua causa nei sacrifici fatti in nome della famiglia.

È cioè necessario che l’assegno, che l’ex coniuge più debole vuole conservare, malgrado l’instaurazione di una sua nuova stabile convivenza di fatto, abbia una funzione compensativa/perequativa, ovvero venga riconosciuto per l’appunto per compensarlo delle relative scelte economicamente penalizzanti, fatte, di comune accordo con l’altro, per contribuire alla formazione del patrimonio familiare e dell’ex coniuge.

Pertanto, in presenza di queste due condizioni – assenza di mezzi adeguati ed assegno di mantenimento con funzione compensativa – l’istaurazione di una nuova convivenza non comporta automaticamente il venir meno dell’assegno, ovvero la relativa riduzione.

nuova convivenza

In quanto, se è vero che la instaurazione di una stabile convivenza costituisce, da un lato, espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole e comporta, dall’altro, l’assunzione di responsabilità verso il nuovo partner e il nuovo nucleo familiare, è altresì vero che la creazione di una nuova famiglia di fatto non cancella di per sé tutti i sacrifici fatti dall’ex coniuge a favore della precedente famiglia, con conseguente conservazione del diritto al mantenimento dell’assegno divorzile, o meglio di quella parte dell’assegno, la cui finalità sia proprio quella di compensare l’ex coniuge di tutto quanto ha rinunciato.

Infatti, la funzione compensativa/perequativa dell’assegno non ha alcun collegamento con il nuovo progetto di vita nato con la creazione della nuova famiglia di fatto e non può, quindi, essere sostituita dalla solidarietà che si costituisce all’interno della nuova coppia, in quanto l’altro componente di detta nuova coppia non deve nei confronti dell’ex coniuge alcuna concreta “riconoscenza” per i sacrifici che lo stesso ha fatto nei confronti della pregressa famiglia.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, è l’ex coniuge onerato della corresponsione dell’assegno di mantenimento, che chiede la relativa esclusione, ovvero la relativa riduzione alla sola componente compensativa, a dover provare la ricorrenza di detta convivenza di fatto e della relativa stabilità.

A tal proposito indice di stabilità sono certamente la nascita di figli, la coabitazione, l‘avere conti correnti in comune, la contribuzione al ménage famigliare.

In ogni caso, in considerazione della difficoltà per chi è estraneo ad una coppia di reperire prove circa l’effettiva contribuzione dei conviventi al ménage familiare, si ritiene che onere dell’ex coniuge che vuole “liberarsi” della corresponsione “perenne” dell’assegno sia quello di dimostrare unicamente il carattere stabile della nuova convivenza, spettando al coniuge beneficiario dell’assegno di dimostrare la natura compensativa dello stesso.

Per verificare la possibilità di ottenere nel vostro caso la revoca, ovvero la riduzione dell’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge, potete fissare un primo colloquio orientativo (gratuito) cliccando qui.

Cass. Civ. Sez. Unit. Sent. n. 32198 del 5.11.2021

Avv. Paola Martino

casa coniugale

Perdita casa coniugale con revoca assegno mantenimento

CON LA REVOCA DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEL FIGLIO MAGGIORENNE VIENE MENO L’ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE

La Corte di Cassazione, con la sentenza dell’ 8 novembre 2021, sancisce che con la revoca  dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne che non studia e non lavora, debba essere disposta anche la revoca dell’assegnazione della casa coniugale

La Cassazione prosegue – in quello che può ritenersi ormai un consolidato orientamento – nel disporre la revoca dell’assegno di mantenimento per i figli maggiorenni, quando questi colpevolmente non ricerchino l’autosufficienza- non completando, o andando oltremodo a rilento, nel percorso formativo intrapreso (cui hanno potuto accedere grazie all’impegno dei genitori) – ovvero non si mettano attivamente in condizione di trarre profitto da detto percorso, una volta terminato.

La valutazione circa l’imputabilità al figlio maggiorenne della sua condizione di insufficienza economica è tanto più severa quanto più elevata è l’età del figlio.

Pertanto, anche se non sussiste un termine finale stabilito per legge di persistenza dell’obbligo di mantenimento, il raggiungimento di un’età – quale possono essere i 30 anni e dintorni, durante i quali il percorso di studio o formativo perseguito dovrebbe essere, nella normalità dei casi, concluso, con la conseguenziale entrata del “ragazzo” nel mondo del lavoro – potrebbe esso stesso rappresentare un indicatore di colpevole inerzia del figlio di procurarsi l’autosufficienza economica, con il conseguente venire meno dell’obbligo di mantenimento da parte dei genitori.

Aggiungiamo che il raggiungimento di detta ragguardevole età – nella quale il figlio  si trasforma, volente o nolente, in un adulto responsabile delle proprie scelte, in nome del sacrosanto principio dell’auto responsabilità – comporta anche una diversa valutazione del parametro dell’ “adeguatezza” dell’attività lavorativa rispetto alle inclinazioni personali.

Appena terminato il percorso di studi e/o formativo, il giovane ha diritto di ricercare una attività consona al percorso completato e alle sue aspirazioni.

Ma lo scorrere inesorabile del tempo, senza che il lavoro “adatto” si sia trovato, comporta, proprio per il su richiamato principio di auto responsabilità, che il giovane, divenuto nelle more adulto, debba ridimensionare le proprie aspirazioni adattandole alle condizioni del mercato del lavoro.

In altri termini, i Giudici di legittimità, con la sentenza in parola e con le decisioni pregresse che confermano il medesimo orientamento, precisano che raggiunta un’età adulta, il criterio dell’adeguatezza – sia in ordine al tipo di lavoro che si vuole svolgere, sia in ordine al livello retributivo del lavoro medesimo – diviene relativo.

Ciò significa che se il figlio, raggiunta l’età adulta, si ostini a voler attendere un lavoro necessariamente rispondente alle proprie aspettative, rifiutando le offerte che si presentano, lo stesso potrebbe essere ritenuto dal Giudice – adito dal genitore che vuole cessare di corrispondere il mantenimento –  colpevolmente responsabile del proprio stato di non autosufficienza economica, con conseguente estinzione del relativo diritto ad essere mantenuto dai genitori.

perdita casa coniugale

Revoca assegno mantenimento e contestuale revoca assegnazione casa coniugale

Nel caso che ci occupa la revoca dell’assegno di mantenimento ha comportato anche la contestuale revoca dell’assegnazione della casa coniugale, che, ove di proprietà esclusiva del genitore non collocatario, potrebbe, quindi, rientrare nella sua disponibilità, venendo meno il titolo in forza del quale l’altro genitore ne gode.

Ricordiamo, infatti, come l’assegnazione della casa familiare ad uno dei due genitori, a prescindere dal relativo titolo di proprietà, ha come pressoché unica finalità, quella di garantire la conservazione dell’«habitat» domestico dei figli minori e/o maggiorenni non economicamente autosufficienti.

In altri termini, il godimento della casa coniugale da parte del genitore con il quale convivono prioritariamente i figli è giustificato unicamente dall’interesse dei medesimi a permanere nella casa in cui sono cresciuti, potendo solo in tal modo mantenere le consuetudini di vita e le relazioni sociali che in quell’ambiente domestico si radicano.

Ma se tale assegnazione avviene solo nell’interesse dei figli, questo vuol dire che non vi può essere assegnazione casa familiare ad uno dei  due coniugi o ex coniugi,  in difetto di questo interesse: o perché non vi sono figli, o perché i figli vivono altrove o perchè, come nel caso di specie, il figlio è divenuto economicamente autosufficiente.

Non potendo l’assegnazione della casa coniugale perseguire finalità diverse dalla protezione della prole, la stessa, quindi, non può costituire una modalità di mantenimento del coniuge più debole.

Queste, in merito, le testuali parole della Corte, nella sentenza in commento “l’assegnazione della casa familiare non può assumere una funzione di perequazione delle condizioni patrimoniali dei coniugi, ma ha la finalità di soddisfare l’esigenza di speciale protezione dei figli minori maggiorenni non economicamente autosufficienti ed ha ritenuto, nella specie, in base all’accertamento di fatto di cui si è detto quell’esigenza non sussistente per il figlio maggiorenne, così attenendosi ai principi costantemente affermati da questa Corte e condivisi dal Collegio”.

Alla luce di questa sentenza, pertanto, deve essere valutata con ancora maggiore attenzione ed interesse la possibilità di richiedere la modifica delle condizioni di separazione e/o divorzio, ove i figli per i quali era stato disposto il mantenimento siano diventati autosufficienti.

Questo in quanto, se viene disposto la revoca dell’assegno di mantenimento, contestualmente può essere chiesta anche la revoca dell’assegnazione della casa coniugale, con l’apertura di interessanti scenari per il genitore proprietario, ovvero comproprietario della casa, privato della stessa a seguito della relativa assegnazione all’altro (basti pensare alla possibilità di farsi corrispondere un affitto da parte dell’altro genitore, ove i due decidano di comune accordo che l’altro permanga, comunque, nella casa; ovvero di vendere l’immobile a terzi, libero da ogni provvedimento giudiziario di assegnazione).

Per verificare la possibilità di ottenere nel vostro caso la revoca dell’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne, potete fissare un primo colloquio orientativo (gratuito) cliccando qui.

Sentenza Cassazione Civile n. 32406 del 2021

Avv. Paola Martino

delibere condominiali

Impugnazione delibere condominiali e termini di decadenza

Impugnazione delle delibere condominiali: il difficile rapporto tra mediazione e termini di decadenza

Mentre le delibere condominiali nulle possono essere impugnate in ogni tempo (salva la prescrizione e l’usucapione) le delibere condominiali annullabili (per la distinzione si veda Cass. SS.UU. sent. 9839 del 14.4.2021; Cass. SS.UU. sent. 4806 del 7.3.2005) possono essere impugnate (da chi non abbia votato a favore) dinanzi all’autorità giudiziaria entro il termine di decadenza di 30 giorni decorrenti dalla data di adozione, per i presenti (sia di persona che per delega), o dalla data di comunicazione del relativo verbale, per gli assenti.

A seguito della introduzione anche in Italia dell’istituto della mediazione civile e commerciale (D.Lgs. n. 28 del 2010), si è stabilito che per alcune materie l’esperimento del procedimento di mediazione fosse obbligatorio, di guisa che il procedimento dinanzi al Giudice non potesse essere portato avanti se non dopo tale esperimento. Tra tali materie vi è quella del condominio, e pacificamente si ricomprendono in tale materia le controversie relative alla impugnazione delle delibere assembleari annullabili.

Conseguentemente nel suddetto termine di decadenza di 30 giorni occorre dar corso alla procedura di mediazione. Tale procedura impedisce la decadenza suddetta e ove la stessa si concluda positivamente, si sarà raggiunto lo scopo della nuova disciplina, ossia ridurre il contenzioso nelle aule di giustizia; ove si concluda negativamente, dal deposito del verbale di accertamento di tale esito negativo, decorrerà un nuovo termine di 30 giorni per introdurre la lite dinanzi al Giudice (cfr. Sentenza Tribunale Brescia, sent. 648 del 18.3.2020; Trib. Sondrio, sent. 25.1.2019; Trib. Monza, sent. 65 del 12.1.2016).

Il procedimento di mediazione deve concludersi entro 90 giorni (salvo che le parti concordemente intendano prorogare tale termine) dalla data di deposito della domanda di mediazione (art. 6).

L’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 succitato stabilisce che: “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale di cui all’art. 11 presso la segreteria dell’Organismo” (di Mediazione).

L’art. 8 stabilisce che: “1. All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante.”.

Per il combinato disposto dei due articoli precedenti, la comunicazione che produce gli effetti di interrompere la prescrizione e di evitare la decadenza è quella con la quale l’Organismo comunica la domanda e la data del primo incontro. Tale comunicazione può avvenire anche a cura della parte istante.

Ma cosa accade se la domanda di mediazione è proposta nel termine di decadenza, ma la comunicazione della stessa e della data del primo incontro sono comunicate dopo tale termine? Ovvero come impedire la decadenza?

scadenza mediazione

E’ necessaria la comunicazione della istanza e dalla fissazione della data dell’incontro nel termine di decadenza o di prescrizione

Una prima interpretazione si limita al dato temporale, e quindi ritiene che solo se la comunicazione (della domanda e della data dell’incontro) perviene entro i 30 giorni si evita la decadenza. E tale interpretazione poggia anche sul fatto che tale comunicazione potrebbe avvenire anche a cura della parte istante, come recita la norma di legge (cfr. Trib Roma, sent. 3159 del 23.2.2021, che richiama App Genova sent. 946 del 2018 e Trib. Napoli, sent. 4.12.2019, richiamando la previsione della notifica a cura della parte ex art. 6. Co 1, D.Lgs. 28 del 2010; conformi anche App. Milano, sent. 253 del 27.1.2020; Trib. Savona, sent. 111 del 8.2.2019; Cass. sent. 2273 del 28.1.2019; Trib. Genova, sent, 1665 del 11.6.2018; Trib. Ivrea, sent. 348 del 6.4.2018; App. Palermo sent. 27.6.2017; Trib. Messina, sent. 72 del 11.1.2018; Trib. Palermo, sent. 18.9.2015; in specie Trib. Roma, sent. 20267 del 22.10.2019, come i precedenti, parla proprio di comunicazione sia della domanda che della data dell’incontro). Tuttavia è evidente che se la domanda di mediazione viene presentata l’ultimo giorno utile o quelli precedenti si avrebbe una corsa contro il tempo per far nominare il mediatore, far accettare a costui la nomina e far fissare da costui la data dell’incontro, per poter poi, finalmente, procedere alla notifica. In sostanza si avrebbe una “sostanziale” riduzione del termine per evitare la decadenza, peraltro rimessa alla diligenza dell’Organismo di Mediazione scelto.

E’ sufficiente la comunicazione della sola istanza nel termine di decadenza o di prescrizione

Una seconda interpretazione, per evitare la decadenza, considera valida la comunicazione della sola domanda, ovviamente eseguita dalla parte istante, atteso che attendere la fissazione della data dell’incontro e poi la comunicazione rischia di far maturare la decadenza (cfr. Trib. Busto Arsizio, sent. 23.4.2021; App. Milano, sent. 253 del 27.1.2020: Trib. Roma, sent. 13981 del 3.7.2019; Trib. Torino, sent. 1451 del 23.3.2018; Trib Chieti – sez. Ortona, sent.3 del 15.1.2018; Trib. Napoli, sent. 10959 del 7.11.2017; Trib. Savona, sent. 2.3.2014). Ma siffatto modo di procedere non tiene conto del fatto che la norma parla di comunicazione della domanda e della data del primo incontro, e quindi la comunicazione della sola domanda appare meno di quanto la legge richiede per impedire la decadenza. Inoltre, entro quando la domanda dovrebbe essere poi depositata? Il giorno stesso o quello dopo o entro il termine di decadenza? Evidente l’arbitrio che ne nascerebbe.

E’ sufficiente il solo deposito della istanza nel termine di decadenza o di prescrizione

Una terza interpretazione ritiene che possa considerarsi idonea a evitare la decadenza il solo deposito della domanda, o meglio che il solo deposito, purché seguito dalla successiva comunicazione del ricorso e della data di incontro, sia idoneo a dare inizio al procedimento di comunicazione considerato dalla legge ai fini di evitare la decadenza.

A favore di tale interpretazione militano vari argomenti, il primo dei quali è la similitudine con il procedimento notificatorio, ove per il notificante il rispetto di eventuali termini di decadenza o di prescrizione viene valutato in relazione all’inizio del procedimento stesso o meglio a quanto costui debba fare, senza tener conto dei tempi di coloro che eseguono la notificazione e sono soggetti fuori del controllo del notificante, mentre per il notificato i termini a beneficio e a carico dello stesso sono calcolati dalla data di effettivo completamento del procedimento notificatorio (così Corte Costituzionale, sent. 26.11.2002, n. 477; Cassazione SS.UU. sent. 14.4.2011, n. 8491)). Tale componimento degli interessi contrapposti vale anche per il procedimento di mediazione, ove, specie per quello in materia di impugnazione di delibere condominiali, si adduce l’interesse del condominio alla stabilità delle delibere come motivo di interpretazione “restrittiva” del termine dei 30 giorni, ma l’imposizione di tale ulteriore onere a carico del ricorrente (ossia l’esperimento obbligatorio del procedimento di mediazione) deve essere correttamente interpretato e giustificato (a favore di tale ragione per la scelta interpretazione qui offerta cfr. Trib. Brescia, sent. 648 del 18.3.2020; Trib. Roma, sent. 16.7.2020; Trib. Sondrio, sent. 25.1.2019; Trib. Savona, sent. 1091 del 23.10.2018; App. Brescia, sent. 133 del 30.7.2018; Trib. Palermo, sent. 4870 del 20.9.2017; Trib. Firenze, sent. 2718 del 19.7.2016; Trib. Velletri, sent. 1586 del 5.5.2015; Trib. Palermo, sent. 4951 del 2015).

In secondo luogo, la norma di legge che prevede la durata della procedura di mediazione considera come momento iniziale la data di deposito della domanda. Ma che senso avrebbe una siffatta previsione ove, ad esempio, per problemi di notifica la domanda e l’invito dovessero essere notificati dopo svariati giorni? Il senso della norma risiede nel non voler differire sine die il termine di un procedimento che è congegnato come impeditivo della trattazione delle cause da parte del Giudice. Ma allora a maggior ragione la proposizione della domanda vale a interrompere la decadenza e la prescrizione, alla quale farà seguito la effettiva comunicazione.

In terzo luogo, vi è il corretto recepimento della Direttiva 2008/52 CEE, ove all’art. 8, sotto la rubrica “effetto della mediazione sui termini di prescrizione e decadenza”, afferma che “gli Stati membri provvedono affinché alle parti, che scelgono la mediazione nel tentativo di dirimere una controversia, non sia successivamente impedito di avviare un procedimento giudiziario o di arbitrato in relazione a tale controversi per il fatto che durante il procedimento di mediazione siano scaduti i termini di prescrizione o decadenza”.

Ne segue che la stretta interpretazione della norma circa la comunicazione come fatto che interrompe i termini di decadenza e di prescrizione, ove sia slegato al deposito della istanza di mediazione, quale atto introduttivo del procedimento stesso, contrasta apertamente con la suddetta direttiva comunitaria, la quale nella sua essenzialità e semplicità afferma che l’intraprendere un procedimento di mediazione (ossia il presentare la relativa domanda) impedisce ogni decadenza e prescrizione durante il procedimento stesso. Con la ovvia conseguenza che la normativa nazionale – ove contrastante – debba essere disapplicata, e quindi considerata tamquam non esset.

In quarto luogo, vi è un argomento logico funzionale, relativo alla utilità della disciplina della mediazione ai fini della riduzione del contenzioso giudiziario. Nel timore che l’Organismo di Mediazione non eseguisse la comunicazione nel termine di decadenza, specialmente ove la domanda fosse presentata nella seconda quindicina del periodo, il ricorrente sarebbe indotto per cautela a proporre direttamente il giudizio, evitando ogni decadenza, e in tal sede, ove fosse sollevata la relativa eccezione o rilevata la questione d’ufficio, potrebbe poi beneficiare del termine per introdurre il procedimento (che, nota bene, si intende introdotto con il solo deposito della istanzaargumenta ex art. 5 D. Lgs. 28/2010  – , e dunque rendendo ormai ancor più irrilevante data della la successiva comunicazione), ma così gravando i ruoli di procedimenti potenzialmente inutili.

In conclusione, l’unica interpretazione della disciplina giuridica del rapporto tra mediazione e decadenza in materia di impugnazione delle delibere condominiali annullabili ragionevole, compatibile con lo spirito della nostra Costituzione e conforme alle direttive comunitarie, risulta quella secondo la quale la decadenza è evitata ove la domanda sia presentata ad un Organismo di Mediazione entro il termine di 30 giorni.

Avv. Giorgio Falini 

assegno mantenimento coniuge

Assegno Mantenimento Coniuge autosufficiente ma più Debole

Determinazione Assegno di Mantenimento in sede di Divorzio – Riconoscimento del Mantenimento anche in caso di Autosufficienza Economica del Coniuge più debole – Le Nuove Regole dettate dalla Corte di Cassazione.

La Suprema Corte di Cassazione interviene nuovamente in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, confermando, da un lato, l’abbandono del criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma riconoscendo, dall’altro, detto mantenimento, malgrado l’autosufficienza economica del coniuge più debole.

La Suprema Corte di Cassazione con ordinanza del 8 settembre 2021, conferma il suo nuovo orientamento, inaugurato con la sentenza n. 11504 del 2017 e perfezionato con le Sezioni unite del 2018, per il quale l’assegno di mantenimento da destinare al coniuge più debole in sede di divorzio non può essere teso in alcun modo a garantire il pregresso tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale.

Al tempo stesso, però, detto, assegno può essere riconosciuto anche in presenza di autosufficienza economica del coniuge destinatario, qualora lo stesso sia in grado di provare i sacrifici dallo stesso fatti in costanza di matrimonio,  attraverso circostanziate scelte di vite, per venire incontro ai bisogni della famiglia.

In questo caso l’assegno avrà come finalità quello di compensare detto coniuge dei sacrifici fatti in funzione della famiglia, rivelando in tal modo la sua natura compensativa-perequativa.

Circa le modalità di determinazione dell’assegno mantenimento coniuge, l’ordinanza in commento, questo testualmente prevede:

“In definitiva, il giudice deve quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza ma ancorata ad un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, nel qual caso l’assegno deve essere adeguato a colmare lo scarto tra detta situazione ed il livello dell’autosufficienza come individuato dal giudice di merito. Ed inoltre, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l’assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali (che il coniuge richiedente ha l’onere di dimostrare nel giudizio), al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo assistenziale”    

Avv. Paola Martino

negoziazione assistita

Negoziazione assistita, domanda giudiziale e decorso interessi

L’invito alla negoziazione assistita costituisce domanda giudiziale ai fini del decorso degli interessi ex art. 1284 comma quarto Codice Civile

La eccessiva durata dei processi in Italia costituisce fatto notorio. Nell’ambito del diritto civile, anche in relazione al recepimento di apposita Direttiva CEE, il legislatore ha introdotto una disciplina diretta a evitare che il ritardo nei pagamenti possa costituire motivo di pregiudizi economici a carico dei creditori, e ha previsto la determinazione di un tasso di interesse sui crediti insoluti derivanti da “transazioni commerciali” (cfr. art. 2, D.Lgs. n. 231/02), tale da, in ipotesi, scoraggiare i ritardi nei pagamenti (D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in recepimento Direttiva CEE n. 2000/35/CE; D.Lgs. 9 novembre 2012, n. 192, in recepimento Direttiva CEE n. 2011/7/UE).

Siffatta tutela era concessa, sotto il profilo soggettivo, ai crediti tra imprenditori e verso la Pubblica Amministrazione, di guisa che anche in difetto di convenzione tra le parti in materia il tasso degli interessi era determinato direttamente da tale normativa speciale. Di conseguenza si è andato creando un dualismo: da una parte i crediti “civili” e dall’altra quelli “commerciali”, tenuto conto del diverso regime degli interessi (moratori).

I crediti “commerciali” e i crediti “civili”

Infatti, per i crediti “civili” il tasso di interesse, in difetto di convenzione, è quello previsto dall’art. 1284 Cod. Civ., il c.d. interesse legale (mentre a ben vedere si dovrebbe definire il tasso legale degli interessi, contrapposto a quello convenzionale).

Se con la suddetta normativa si era posto per i crediti “commerciali” un rimedio dissuasivo rispetto alla durata dei processi, ovvero alla prassi di usare la lunghezza dei processi come metodo di finanziamento, visto il tasso assai basso degli interessi sui crediti in via di accertamento giudiziale; nulla si era previsto per gli altri crediti, con la conseguenza di favorire la opportunistica contestazione in giudizio dei crediti di questa seconda specie, stante l’inconsistente effetto deterrente del saggio legale degli interessi.

La variazione del tasso degli interessi per i crediti “civili” quale effetto dell’accesso alla giustizia

A tale situazione ha posto rimedio la modifica dell’art. 1284 Cod. Civ. con l’introduzione dell’attuale quarto comma che recita: “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.” e del successivo quinto comma: “La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale.” (tali comma sono stati aggiunti dall’art. 17, comma 1 del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modifiche, nella l. 10 novembre 2014, n. 162).

Per effetto di tale previsione, anche i crediti “civili” beneficiano del tasso previsto dalla legge per i crediti “commerciali” a decorrere dalla proposizione della domanda giudiziale, ovvero dall’atto di promovimento di procedimento arbitrale. All’evidenza viene dunque rafforzata la tutela di tali crediti e “scoraggiata” la infondata ma dilatoria resistenza in giudizio.

calcolo interessi

La decorrenza della variazione del tasso degli intessi e gli ADR obbligatori

Nel nostro sistema processuale sono state però introdotte due importanti novità: la mediazione (D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 e D.L. 21 giugno 2013, n. 69) e la negoziazione assistita (D.L. 12 settembre 2014, n. 132, conv. L. 10 novembre 2014, n.  162). Tali procedimenti alternativi alla tutela giurisdizionale dei diritti (Alternative Dispute ResolutionADR) sono stati posti in alcune ipotesi (v. art. 5, comma 1bis  D.Lgs. n. 28/10 e art. 3 D.L. n. 132/14) come antecedente necessario per poter accedere a detta tutela, di guisa che la domanda giudiziale deve essere preceduta dall’esperimento o dell’una o dell’altra modalità alternativa di risoluzione delle controversie.

Ma come si coordina tale previsione processuale con la disciplina codicistica di cui sopra circa la (decorrenza della) variazione del tasso degli interessi? La risposta più razionale è quella secondo la quale ove la domanda giudiziale debba essere preceduta da un procedimento alternativo (ADR) la decorrenza della variazione del tasso degli interessi debba essere fissata all’atto iniziale di tale procedimento, e dunque o il deposito della domanda di mediazione presso l’Organismo di Mediazione o la notifica dell’invito alla negoziazione assistita. Solo in tal modo, infatti, l’onere di espletamento preliminare di tali procedimenti si rivela idoneo a non pregiudicare il diritto al mutamento del tasso degli interessi.

Conferma della correttezza della prospettata soluzione interpretativa giunge da due decisioni emesse dal Tribunale di Siena: l’una del 13 luglio 2019, e l’altra dell’8 settembre 2021. Nei casi in commento i ricorrenti avevano notificato invito alla negoziazione assistita e poi agito in giudizio per un credito (inferiore a euro 50.000,00 e dunque soggetto a negoziazione assistita). In entrambi i casi gli estensori delle due ordinanze decisorie hanno riconosciuto che il tasso degli interessi dovuti mutava dalla data di notifica dell’invito alla negoziazione assistita, proprio in quanto da tale momento dovevano farsi “retroagire” gli effetti della domanda giudiziale su tale tasso ex art. 1284 Cod. Civ.

ordinanza_13_7_2019ord dec 8-9-2021

Avv. Giorgio Falini 

affido condiviso

Affido Condiviso e Mantenimento Diretto dei Figli

Figli: i distinguo della Corte di Cassazione sull’affido condiviso e il mantenimento diretto

È possibile che, in caso di affido condiviso, ciascun genitore provveda al mantenimento diretto del figlio, senza corrispondere alcunché all’altro genitore? La risposta, per la Suprema Corte è, sostanzialmente, negativa (cfr. Cass. Ordinanza n. 1722 del 16 giugno 2021)

Una domanda che viene frequentemente posta durante i colloqui presso lo Studio, di solito da parte del genitore economicamente più capiente, in vista della separazione e/o divorzio, è se sia possibile provvedere al mantenimento diretto dei figli, nell’ipotesi in cui lo stesso sia collocato presso i due genitori per un tempo del tutto paritario, escludendo in tal modo la corresponsione di ogni assegno all’altro genitore.

Il ragionamento seguito è di solito il seguente: se mio figlio sta con me e con l’altro genitore per pari tempo (che sia una settimana, un mese ecc..), durante la sua permanenza presso di me provvederò io integralmente al relativo mantenimento e lo stesso farà, nel periodo di sua spettanza, l’altro genitore.

Questo ragionamento non trova però il beneplacito della Suprema Corte di Cassazione, che è intervenuta più volte sul punto, escludendo che l’affido condiviso implichi, come conseguenza automatica, che ciascuno genitore debba provvedere paritariamente in modo diretto ed autonomo al mantenimento dei figli.

Ciò in quanto, se è vero che l’affido condiviso – ormai la norma – implichi una frequentazione paritaria dei genitori con il figlio, nell’interesse morale e materiale di quest’ultimo, è altresì vero che deve essere garantito al figlio una situazione il più confacente possibile al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena.

mantenimento diretto

Vi sono casi in cui una vita perfettamente “suddivisa” tra i due genitori non è concretamente possibile, a causa, ad esempio della distanza tra le due abitazioni della madre e del padre.

In tal caso, applicare rigidamente il criterio dell’affido condiviso significherebbe, imporre al figlio una vita frammentata, onerandolo di tempi e sacrifici di viaggio tali da comprometterne gli studi, il riposo e la vita di relazione.

In questi casi, l’affido condiviso non equivale a perfetta equivalenza di tempo che il figlio trascorre con i due genitori.

Vi sarà in tal caso un c.d. genitore collocatario, ovvero un genitore presso il quale il figlio vivrà prevalentemente, che dovrà, quindi, essere in grado di garantire il medesimo tenore di vita di cui il figlio godeva prima della crisi familiare.

E provvedere alle esigenze del figlio non vuol dire far fronte unicamente all’obbligo alimentare, ma soddisfare una molteplicità di esigenze –  relative, ad esempio,  all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale -;  esigenze tutte queste che presuppongono una stabile organizzazione domestica, che dovrà essere garantita dal genitore convivente che sarà tenuto ad anticipare le relative  spese e a provvedervi nella quotidianità attraverso la necessaria programmazione che connota la vita familiare.

Di qui l’esigenza che l’altro genitore contribuisca con il versamento di un assegno che consentirà al figlio di risentire il meno possibile della crisi familiare, sotto il profilo della sua quotidianità e delle sue abitudini, del suo stile e tenore di vita.

Diverso è il discorso del mantenimento diretto del figlio maggiorenne per il quale si rinvia ad altro articolo specifico sull’argomento.

Avv. Paola Martino

 

assegno mantenimento figlio maggiorenne

Assegno Mantenimento Figlio Maggiorenne Corresponsione Diretta

Assegno mantenimento figlio maggiorenne, nullità dell’accordo per la corresponsione dell’assegno direttamente al figlio maggiorenne

La Corte di Cassazione, con ordinanza del 13 Aprile 2021, ha escluso che i genitori, senza ricorrere all’autorità giudiziaria, possano accordarsi per la corresponsione dell’assegno di mantenimento direttamente al figlio maggiorenne.

Capita spesso –  a seguito di una sentenza di separazione e/o divorzio che statuisce il mantenimento per i figli della coppia – che una volta raggiunta la maggiore età di questi, il genitore onerato del mantenimento –  motivato  a volte da un rapporto fortemente conflittuale con l’altro genitore con il quale i figli convivono prevalentemente –decida, in via unilaterale, o nelle migliori ipotesi, in accordo con l’altro genitore, di corrispondere l’assegno di mantenimento direttamente al figlio e non più all’ex coniuge.

È bene sapere che tale decisione può ritorcersi contro il genitore/debitore dell’assegno, dal momento che i pagamenti effettuati direttamente al figlio non sono validi, nel senso che non lo liberano dell’obbligazione mensile di mantenimento, e possono essere, pertanto, richiesti nuovamente dall’altro genitore, con conseguente versamento della medesima somma per due volte.

Ciò, come detto, anche nella ipotesi in cui l’altro genitore abbia manifestato il suo consenso a che l’assegno venga versato direttamente al figlio.

corte di cassazione

La Suprema Corte di Cassazione ha infatti rilevato, nella sopra indicata ordinanza che “la determinazione dell’assegno i mantenimento dei figli, da parte del coniuge, separato (o divorziato n.d.r.)  risponde ad un superiore interesse di quelli, interesse che non è disponibile dalle parti”

Questo significa che una volta che il provvedimento del Giudice ha stabilito chi è il debitore dell’assegno di mantenimento e chi è il creditore, le parti non possano modificare detta statuizione, se non ricorrendo nuovamente all’Autorità giudiziaria.

L’unico rimedio che hanno a disposizione i genitori ed il figlio è che il genitore/creditore dell’assegno indichi, all’altro genitore/debitore, nel figlio il soggetto legittimato a ricevere l’assegno.

Ciò in quanto l’art. 1188 Cod. Civ. prevede che il pagamento possa essere effettuato, oltre che direttamente al creditore, anche alla persona indicata dal creditore medesimo, in questo caso il figlio.

Con questo escamotage il pagamento effettuato dal genitore al figlio sarà valido ed estintivo dell’obbligazione mensile, in quanto i genitori del figlio maggiorenne non si sono accordati per mutare la persona del creditore –  dal genitore al figlio –  ma solo per mutare il soggetto legittimato a ricevere l’assegno, che rimane di competenza dell’altro genitore.

Si tratta di una soluzione non pienamente soddisfacente, in quanto, da un lato, il figlio non potrà disporre liberamente dell’assegno – ma dovrà, ove richiesto, corrisponderlo al genitore  con il quale convive.-, dall’altro tale indicazione del figlio come soggetto legittimato al pagamento è suscettibile di essere revocata in ogni tempo dal genitore avente diritto.

Tuttavia tale soluzione mette, comunque, il genitore tenuto a versare il mantenimento  al riparo da richieste dell’altro genitore di corresponsione di somme già versate.

L’unica strada che consentirebbe al figlio di disporre liberamente dell’importo dell’assegno e al genitore/debitore di mettersi al riparo da ripensamenti dell’altro è quella di adire nuovamente l’Autorità giudiziaria per ottenere una modifica delle condizioni di separazione/divorzio con specifico riferimento al mantenimento dei figli.

Alla luce di quanto sopra si consiglia, in via generale, di non procedere, sia di propria iniziativa, sia con l’accordo dell’ex coniuge, alla modifica delle condizioni di separazione e/o divorzio senza prima aver consultato il proprio avvocato, al fine di evitare di incorrere in spiacevoli sorprese.

Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 11/12/2020) 13-04-2021, n. 9700

Avv. Paola Martino

 

mantenimento figli maggiorenni

Mantenimento Figli Maggiorenni – Fino a quando?

La Cassazione, con la sentenza n. 17183 del 14.08.2020, delinea i presupposti per il permanere in capo ad i genitori dell’obbligo di mantenimento dei figli divenuti maggiorenni

Prima di tutto, si evidenzia come l’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente non discenda dalla legge.

Non vi è, cioè, alcuna norma di legge che imponga ai genitori di mantenere i figli ultra diciottenni.

In secondo luogo, il figlio può dirsi divenuto economicamente autosufficiente quando sia in grado di soddisfare da solo le sue primarie esigenze di vita, ovvero quando la retribuzione che ricava dalla sua attività è tale da garantirgli una esistenza dignitosa.

Se nasce questione in merito (se, in altri termini, il figlio ultra diciottenne  vuole essere mantenuto, contro la volontà dei genitori) sarà un Giudice ad accertare, caso per caso, la ricorrenza di detto obbligo, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.

Queste circostanze sono state delineate in una interessantissima sentenza  dell’ agosto del 2020, con la quale la Corte di Cassazione ha precisato i confini di detto obbligo di mantenimento.

In sintesi e con le necessarie semplificazioni, la Cassazione afferma che l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori possa dirsi cessato:

  • quando il figlio decida di intraprendere gli studi universitari dopo le superiori, ma non segua gli stessi in maniera diligente, trascinandosi stancamente in un percorso di studi per nulla proficuo;
  • quando, terminato il ciclo di studi ritenuto consono alle sue inclinazione ed attitudini, il figlio non si ponga attivamente alla ricerca di un lavoro;
  • quando lo stesso si intestardisca a cercare solo un lavoro conforme al suo percorso di studi, ignorando ogni altra occasione di lavoro.

Il principio portato avanti dalla Cassazione è, infatti, quello per il quale il figlio, che ha raggiunto la maggiore età, abbia il dovere, per il principio di auto responsabilità, di cercare e trovare l’autosufficienza economica, contemperando le sue aspirazioni, con il concreto mercato del lavoro.

La Cassazione, infatti, ritiene che una volta raggiunta la maggiore età, si debba presumere l’idoneità al reddito, ovvero la capacità del figlio di rendersi indipendente ed economicamente autosufficiente, se il figlio vuole essere mantenuto (contro il parere dei genitori), oltre il raggiungimento di questa età, dovrà essere lui (e non i genitori, per il principio di vicinanza della prova) a dimostrare di aver diritto al mantenimento ulteriore.

Dovrà, quindi, dimostrare di aver intrapreso un serio e non pretestuoso corso di studio ulteriore rispetto alle scuole superiori e di avere  le capacità e le competenza per portarlo a compimento entro i termini di legge.

Ad esempio, il figlio si “guadagna” il diritto ad essere mantenuto anche dopo le superiori se dimostra di aver vinto borse per i suoi studi universitari, dimostrando in tal modo la serietà della sua intenzione di proseguire in maniera proficua nel suo percorso formativo.

Del pari, dovrà dimostrare, per essere mantenuto anche dopo il conseguimento della laurea, di aver fatto tutto quanto in suo potere per trovare un lavoro, sia esso o meno rispondente alla propria specificazione preparazione professionale, non esistendo il diritto di essere mantenuto sin quando non si trovi esattamente il lavoro per il quale si è studiato.

La Cassazione ritiene, cioè, che il figlio –  terminati, nei giusti tempi gli studi  e trascorso un ragionevole lasso di tempo (che la stessa Corte indica come breve) per trovare una occupazione corrispondente alla tipologia di studi effettuata  –  abbia il dovere di cercare un qualunque lavoro in grado di assicuragli un’esistenza autonoma in attesa dell’auspicato lavoro del tutto rispondente alle proprie soggettive aspirazioni.

Si vogliono in questo modo evitare forme di parassitismo di figli ormai adulti a carico di genitori sempre più anziani

Il Giudice, nel valutare il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento, terrà, fra l’altro, conto dei dati statistici, da cui risulti il tempo medio in un dato momento storico necessario all’ottenimento di una occupazione a seconda del grado di preparazione conseguito.

Fermo rimanendo che se il figlio non trova detto tipo di occupazione dovrà dimostrare, per continuare ad aver diritto al mantenimento, di aver fatto il possibile per conseguire comunque un lavoro.

Questa valutazione giudiziale sarà tanto più rigorosa, quanto più il figlio che pretende il mantenimento sia divenuto adulto.

Certamente, poi, il diritto al mantenimento del figlio cessa del tutto, nel caso in cui lo stesso si sposi o comunque dia vita ad un una autonomo nucleo familiare, dal momento che il matrimonio o la convivenza attestano il raggiungimento di una maturità affettiva e personale che di per sé sola fa venire meno ogni obbligo di mantenimento in capo alla famiglia di origine.

Mantenimento figli maggiorenni Sentenza Cassazione n. 17183 

Avv. Paola Martino