Category Archives: Diritto di famiglia

separazione con addebito

Separazione con addebito per condotta violenta

La gravità della condotta violenta del coniuge è tale da costituire in ogni caso addebito della separazione, anche per un unico episodio

Con recente decisione la Corte di Cassazione (ord. 27324 del 16.9.2022) ha ribadito la gravità delle violenze fisiche in danno dell’altro coniuge, tali da costituire motivo di  separazione con addebito, pur se successive al manifestarsi della crisi coniugale, e da esonerare il Giudice dal dovere di confrontare tali condotte con quelle dell’altro coniuge. E ciò anche ove trattasi di unico episodio.

E invero, così si esprimono i Giudici di legittimità:

Secondo l’orientamento di questa Corte, al quale si intende dare continuità, i comportamenti reattivi del coniuge che sfociano in azioni violente e lesive dell’incolumità fisica dell’altro coniuge, rappresentano, in un giudizio di comparazione al fine di determinare l’addebito della separazione, causa determinante dell’intollerabilità della convivenza, nonostante la conflittualità fosse risalente nel tempo ed il fatto che l’altro coniuge contribuisse ad esasperare la relazione (Cass. n. 6997/2018; Cass. n. 7321/2005); invero, “Le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole – quand’anche concretantisi in un unico episodio di percosse -, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti l’intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore, e da esonerare il giudice del merito dal dovere di comparare con esse, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, restando altresì irrilevante la posteriorità temporale delle violenze rispetto al manifestarsi della crisi coniugale” (Cass. n. 7388/2017; Cass. n. 3925/2018).

Anche un unico episodio integra un comportamento idoneo, comunque, a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona (Cass. n. 433/2016) e la reazione aggressiva della vittima non ne riduce la portata e l’efficienza causale.”

Ripresa della convivenza e ricostituzione effettiva del ménage coniugale

Né può giovare a estinguere il procedimento di separazione una mera ripresa della convivenza, ove non si offra la prova della ricostituzione effettiva della vita coniugale:

Inoltre, non e’ sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, considerati gli effetti da essa derivanti, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale e provvisorio, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale (Cass. 19497/2005; Cass. 19535/2014; Cass. 1630 del 23/01/2018Cass. 20323/2019). Invero, “La mera coabitazione non e’ sufficiente a provare la riconciliazione tra coniugi separati essendo necessario il rispristino della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale”. (Cass. n. 19535 del 17/09/2014), dal che consegue che, laddove emerga una crisi coniugale prolungata ed irrisolta, i tentativi di superarla – nell’ambito dei quali può collocarsi la rinuncia ad un ricorso di separazione da parte del marito, come avvenuto nel caso in esame – non possono essere qualificati come “riconciliazione”, in assenza di elementi univoci e significativi del pieno e concreto ripristino della comunione di vita e di affetti.

Nella fattispecie la sussistenza delle condotte illecite da parte del coniuge era stata oggetto di pronunce in sede penale ed aveva acquisito valore di cosa giudicata, rendendo dunque indiscutibile la sua esistenza.

Avv. Giorgio Falini

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ex coniuge

Ex coniuge, assegno di mantenimento e tutela proprio credito

Come può il coniuge, avente diritto all’assegno di mantenimento per sé e/o per il figlio, tutelare il proprio credito

Spesso capita, in ragione dell’elevato tasso di conflittualità che caratterizza le separazioni ed i divorzi, che il coniuge (o ex coniuge in caso di divorzio), a favore del quale sia stato riconosciuto, con provvedimento giudiziale, anche in via temporanea ed urgente, un assegno di mantenimento, per sé e/o per i suoi figli, non si fidi del puntuale adempimento da parte del coniuge obbligato e voglia, pertanto, garantirsi da eventuali relativi inadempimenti.

Molteplici sono gli strumenti, che il coniuge avente diritto ha per tutelarsi.

IPOTECA GIUDIZIALE

In merito occorre ricordare che il provvedimento con il quale vengono riconosciuti i suddetti assegni, anche se di carattere provvisorio, è di per sé titolo esecutivo.

In forza di detto titolo è, pertanto, possibile iscrivere ipoteca giudiziale, sempre che il valore dei beni ipotecati non ecceda il credito che si intende tutelare. Ove ciò accada il coniuge che ha iscritto ipoteca viene condannato al risarcimento del danno.

Detto rimedio presuppone, quindi, che il credito che si vuole tutelare sia molto elevato, dal momento che gli immobili di norma non hanno un valore esiguo.

SEQUESTRO GIUDIZIALE

È possibile poi che il Giudice, su richiesta del coniuge avente diritto all’assegno per sé o per i figli, disponga il sequestro dei beni mobili, immobili o dei crediti dell’ex coniuge obbligato, per garantire che vengano soddisfatte o conservate le ragioni del primo.

L’art. 473 bis. 36 introdotto dalla riforma Cartabia non specifica che il sequestro possa essere concesso solo in caso inadempienza del coniuge obbligato, come era previsto ante riforma.

In ogni caso, è plausibile che il Giudice, nel valutare se concedere o meno il sequestro, accerti se nel caso concreto vi siano o meno esigenze di garanzia, non imponendo il vincolo ove non le ravvisi.

PAGAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO DIRETTAMENTE DA PARTE DEL TERZO DEBITORE DEL CONIUGE OBBLIGATO

terzo debitore

Una altra forma di garanzia del pagamento, puntuale, effettivo e completo, dell’assegno di mantenimento è costituito dalla possibilità che a detto pagamento provveda direttamente il terzo tenuto a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato (si pensi al datore di lavoro, all’Inps ecc.).

Prima della Riforma Cartabia, era il Giudice che poteva ordinare al terzo, su richiesta del coniuge avente diritto, di versare a quest’ultimo parte delle somme oggetto dell’assegno di mantenimento, in caso di inadempimento del coniuge obbligato.

Attualmente, a seguito di detta riforma, è direttamente il coniuge avente diritto all’assegno che può notificare il provvedimento, ovvero, in caso di negoziazione assistita, l’accordo nel quale è stabilita la misura dell’assegno al terzo, unitamente alla richiesta di versargli direttamente le somme dovute, dandone comunicazione all’altro coniuge.

PRESUPPOSTI PER CHIEDERE DIRETTAMENTE AL TERZO DEBITORE IL PAGAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Presupposto per procedere a detta notifica al terzo è che il coniuge obbligato sia inadempiente per un periodo di almeno 30 giorni e che lo stesso sia stato già costituito in mora dal coniuge avente diritto (questo significa che il coniuge  avente diritto deve diffidarlo al pagamento di quanto dovuto).

Il terzo è tenuto ad effettuare il pagamento dell’assegno dal mese successivo a quello della notifica.

E SE NEANCHE IL TERZO PAGA?

Allora il coniuge/genitore avente diritto all’assegno può intraprendere l’azione esecutiva direttamente nei confronti del terzo per il pagamento delle somme dovute.

Nell’ipotesi in cui lo stipendio del coniuge obbligato sia già stato in precedenza pignorato, nel momento in cui perviene al terzo datore di lavoro la notificazione della richiesta di provvedere direttamente al versamento dell’assegno di mantenimento, allora sarà il Giudice dell’esecuzione che procederà alla assegnazione e alla ripartizione delle somme tra il coniuge avente diritto e gli altri creditori, tenendo  conto della natura e della finalità dell’assegno (a livello meramente esemplificativo costituisce certamente elemento di rilievo la circostanza che l’assegno sia destinato al mantenimento dei figli, ovvero dell’altro coniuge che non abbia altre fonte di reddito.

Avv. Paola Martino

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figlio maggiorenne

Figlio maggiorenne ed ingresso nel mondo del lavoro

Il figlio maggiorenne, terminato il proprio ciclo di formazione ed entrato nel mondo del lavoro, perde il diritto ad essere mantenuto dai genitori

Con l’ordinanza in commento (n. 19696 del 22 luglio 2019),  la Corte di Cassazione conferma il proprio orientamento, per il quale il figlio maggiorenne perde il diritto all’assegno di mantenimento, tutte le volte in cui, completato il proprio percorso formativo (sia esso di studio, ovvero professionale) trovi una occupazione che, ancorché retribuita modestamente,  lo introduca nel mondo del lavoro, preludendo ad una successiva spendita della capacità lavorativa acquisita a rendimenti crescenti

Lo svolgimento di un lavoro di tal fatta consente, infatti,  di affermare che il figlio maggiorenne abbia raggiunto un sufficiente grado di capacità lavorativa che, essendo utilmente spendibile nel mercato del lavoro, consente allo stesso di rendersi  autosufficiente.

La giurisprudenza della Suprema Corte è, infatti, consolidata nel ritenere che l’obbligo di mantenimento dei genitori – in proporzione alle relative risorse economiche  – permane oltre il raggiungimento della maggiore età del figlio, sin quando lo stesso non completi, nei tempi ordinari, il percorso formativo dallo stesso prescelto, al fine di acquisire una capacità lavorativa idonea a renderlo autosufficiente.

Ne consegue come l’inizio dello svolgimento di una attività lavorativa,  conforme alla capacità lavorativa acquisita, consente di ritenere che la stessa si sia conclusa, con conseguente perdita del diritto al mantenimento.

Circa l’onere della prova, la Suprema Corte afferma  che debba essere il genitore, che vuole liberarsi dell’obbligo di mantenimento, a dimostrare che il figlio maggiorenne abbia completato la sua formazione ed abbia, quindi, raggiunto  un capacità lavorativa spendibile sul mercato del lavoro.

Di contro, il figlio, che vuole dal suo canto essere mantenuto, dovrà dimostrare la non imputabilità alla sua colpa o negligenza nel mancato reperimento di una attività lavorativa sufficientemente remunerativa, nonostante il completamento del suo ciclo di formazione.

Si evidenzia che una volta che il Giudice abbia sancito con provvedimento definitivo – ovvero non più impugnabile –  la perdita del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne, questo diritto non potrà più rivivere, anche nell’ipotesi di perdita e/o di riduzione da parte del figlio della attività lavorativa intrapresa, non importa per quali ragioni.

Ciò comporta che la richiesta di soppressione dell’assegno di mantenimento  a favore del figlio maggiorenne verrà vagliata dal Giudice con molta attenzione, nella consapevolezza che, una volta escluso detto mantenimento lo stesso non potrà più risorgere.

Rimane fermo per il figlio, come per l’ex coniuge, il diritto agli alimenti, ove lo stesso versi in comprovato  stato di bisogno.

Quindi riassumendo:

  • I genitori sono tenuti a mantenere i figli, oltre il raggiungimento della maggiore età, per consentirgli di acquisire, attraverso un percorso universitario o professionale, una capacità lavorativa che possa essere impiegata nel mondo del lavoro, con conseguente remunerazione idonea a rendere il figlio indipendente;
  • Ove, il figlio, terminata la propria formazione, intraprenda una attività lavorativa corrispondente alla capacità lavorativa acquista attraverso il percorso formativo pagato dai genitori, lo stesso può dirsi divenuto indipendente, anche se la remunerazione del suo lavoro sia, all’inizio, inferiore rispetto alla capacità lavorativa acquisita, ove il lavoro trovato lasci presumere maggiori futuri guadagni.
  • In questo caso il genitore tenuto al mantenimento può richiedere un provvedimento giudiziale di esclusione, totale o parziale, dello stesso.
  • Una volta escluso, il mantenimento non potrà essere nuovamente riconosciuto in capo al figlio, anche se lo stesso perda o veda contrarsi il lavoro acquisito

Avv. Paola Martino

Per ulteriori approfondimenti clicca qui:   figli maggiorenni disoccupati – quando viene meno l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori?

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esenzione imu

Esenzione IMU a coppie coniugate o di fatto e unioni civili

A seguito della recentissima decisione della Corte Costituzionale, anche le coppie coniugate, o unite civilmente, avranno diritto alla duplice esenzione IMU, ove risiedano e dimorino abitualmente in due case diverse.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 209 del 2022 del 13 ottobre 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che, ai fini dell’esenzione IMU, statuivano che “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»;

Presupposti dell’esenzione IMU prima della dichiarazione di incostituzionalità delle norme in commento –  Differenze tra coppie di fatto e coppie di fatto o unite civilmente

Prima di questa pronuncia di incostituzionalità, vi era, sotto il profilo dell’esenzione IMU, una sostanziale ed ingiustificata differenza tra chi era single, ovvero aveva costituito una coppia di fatto, e chi, invece, aveva deciso di formalizzare la propria unione mediante matrimonio, oppure unione civile.

Infatti, i single, ovvero le coppie di fatto, ai fini dell’esenzione IMU, dovevano (e devono tutt’ora) unicamente dimostrare di risiedere e dimorare abitualmente nell’immobile di cui sono possessori. Con la conseguenza che se i due membri della coppia di fatto risiedono in due immobili diversi, ciascuno di loro avrà certamente diritto all’esenzione in parola.

Per le coppie coniugate, o unite civilmente, prima dell’intervento della Corte Costituzionale in commento, invece, il trattamento era decisamente deteriore, anche per l’interpretazione della legge che ne dava la Corte di Cassazione, in considerazione del riferimento delle norme ai componenti del nucleo familiare che, ai fini dell’esenzione IMU, dovevano necessariamente risiedere nello stesso immobile con il relativo possessore.

Il Giudice di legittimità era, invero, giunto ad affermare che nel caso due persone legate da matrimonio, o da unione civile, fossero in possesso di due immobili presenti nello stesso comune, solo uno di essi poteva godere dell’esenzione.

Se poi gli immobili si trovavano in due comuni diversi, allora la Cassazione sosteneva che  nessun membro della coppia sposata, o unita civilmente, potesse godere del beneficio, in quanto in tal caso nessuno dei loro immobili avrebbe potuto essere considerato abitazione principale e, quindi, beneficiare dell’esenzione.

Proprio per arginare questa interpretazione restrittiva, il legislatore è intervenuto con l’art. 5-decies, comma 1, del d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2021, n. 215, stabilendo che: nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare.

Ragioni per le quali la Corte Costituzionale ha pronunciato l’incostituzionalità delle norme in commento

Me secondo la Corte Costituzionale questa apertura del legislatore non era comunque sufficiente, in quanto lasciava intatta la ingiustificata discriminazione tra coppie di fatto e coppie coniugate, o unite civilmente, dal momento che queste ultime per godere dell’esenzione IMU dovevano dimostrare, comunque, un qualcosa in più rispetto alla prime, ossia la residenza e dimora abituale nell’immobile per cui si chiedeva l’esenzione  non solo del possessore dell’immobile medesimo, ma anche del relativo nucleo familiare, laddove invece per le coppie di fatto questa doppia residenza non era richiesta.

Inoltre le coppie coniugate, o unite civilmente, potevano comunque godere di una sola esenzione, anche se proprietari di due immobili, anziché di due, come accadeva per le coppie di fatto se proprietari ciascuno di un immobile.

Questo pertanto il ragionamento seguito dalla Corte per dichiarare l’illegittimità delle norme in commento.

Secondo la Corte, nell’attuale momento socio/economico, contraddistinto dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dalla velocizzazione dei sistemi di trasporto e dall’evoluzione delle abitudini di vita, non può ritenersi affatto raro e inusuale che i membri di una coppia, pur mantenendo intatta la loro comunione materiale e spirituale, vivano “separati”, ovvero in luoghi diversi per riunirsi periodicamente.

Dal momento che l’IMU, prosegue la Corte nel suo ragionamento, è una imposta di natura reale –  presupponendo il possesso, la proprietà, o la titolarità di altro diritto reale, in relazione a beni immobili per i quali si chiede l’esenzione e non un imposta di tipo personale – il correlare la relativa esenzione alla tipologia di rapporto personale che il possessore dell’immobile istaura con un’altra persona è del tutto incoerente ed illogico e, quindi, per l’appunto incostituzionale.

Regole che presiedono l’esenzione IMU per le coppie coniugate o unite civilmente a seguito della decisione della Corte Costituzionale

Pertanto, a seguito della pronuncia di incostituzionalità in commento, i membri di una coppia coniugata, o unita civilmente, possono, in primo luogo, godere entrambi dell’esenzione IMU per i rispettivi immobili, siano essi presenti in uno stesso Comune o in Comune diversi, purchè in detti immobili ciascuno di essi abbia la residenza e la dimora abituali.

In secondo luogo, ai fini dell’esenzione IMU è sufficiente che nell’immobile per cui si chieda l’esenzione vi risieda e dimori stabilmente unicamente il relativo possessore, essendo venuto meno il riferimento alla contemporanea residenza di ogni componente del nucleo familiare.

Ovviamente perché anche le coppie coniugate, o unite civilmente, possano godere della doppia esenzione, al pari delle coppie di fatto possessori di due distinti immobili, è necessaria che la residenza e dimora abituale in ciascuno dei due immobili per i quali si chiede l’esenzione siano effettive.

A tale fine, rileva la Corte che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, come ad esempio il controllo dell’effettivo consumo di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi, che costituiscono un indice certamente valido della ricorrenza o meno di una effettiva residenza.

Nel pronunciare la declaratoria di illegittimità costituzionale di tali norme, il Giudice delle leggi ha comunque escluso che l’esenzione IMU spetti per le “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile.

Diritto al rimborso

A seguito della pronuncia della Corte Costituzionale in commento, è possibile richiedere il rimborso delle somme pagate e non dovute a titolo di IMU  fino a 5 anni precedenti, considerando, nello specifico, il termine del quinquennio a partire dal versamento ex art. 1, comma 164 della Legge 296/2006.

 Per verificare la possibilità di ottenere nel vostro caso il rimborso IMU pagata e non dovuta  potete fissare un colloquio orientativo (gratuito) cliccando qui.

Sentenza n. 209 del 2022 del 13 ottobre 2022

Avv. Paola Martino

conto corrente cointestato

Conto Corrente Cointestato – Morte di uno dei due Titolari

In caso di rapporti di conto corrente cointestati è illegittimo il relativo blocco da parte degli Istituti di Credito in caso di decesso di uno dei due titolari.

In presenza di un conto corrente cointestato, in caso di morte di uno dei due titolari, gli Istituti di credito procedono usualmente al blocco del conto corrente medesimo, senza peraltro darne notizia all’altro cointestatario che si ritrova, da un giorno all’altro, estromesso dallo stesso, privato della possibilità di accedere ai suoi stessi soldi, stante la sospensione generalizzata di tutti i servizi bancari.

Ma è legittimo il blocco del conto cointestato corrente in caso di decesso di uno dei due titolari da parte dell’istituto di credito?

La risposta è no. 

La giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza n. 7862/2021) è costante nell’affermare che nel caso di  cointestazione di un conto corrente /deposito bancario,  ove i cointestatari abbiano il potere di compiere disgiuntamente tutte le operazioni attive e passive, questo potere permane sino all’estinzione del rapporto, anche in caso di morte di uno dei due titolari, in quanto  la cointestazione del conto dà luogo ad una solidarietà dal lato attivo dell’obbligazione, che permane anche a seguito di morte di uno dei due titolari.

Cosa comporta il permanere di questa solidarietà attiva, a seguito della morte di uno dei due intestatari del conto?

Il permanere di questa solidarietà attiva comporta che il titolare superstite possa prelevare l’intero importo presente sul conto, senza che l’istituto di credito possa opporsi, invocando le norme sulle successioni.

L’istituto di credito, infatti, corrispondendo l’intero saldo al titolare superstite si libera di ogni obbligazione nei confronti degli eredi e non può essere chiamato a rispondere delle somme prelevate dal cointestatario, anche se si tratta dell’intero saldo presente sul conto.

Cosa fare nel caso in cui l’istituto di credito non voglia procedere allo sblocco del conto corrente?

È possibile proporre un ricorso per provvedimento di urgenza ex art. 700 Cod.Proc. Civ., facendo precedere questo ricorso da una diffida alla banca da parte dell’Avvocato di vostra fiducia, dal momento che in alcuni casi una diffida ben confezionata è idonea a sbloccare la situazione, evitando in tal modo il ricorso all’Autorità giudiziaria.

Ove la diffida non produca l’effetto sperato, il procedimento d’urgenza ex art. 700 Cod.Proc. Civ consente di ottenere in tempi ragionevolmente brevi,  sia la liquidazione dell’intero saldo del conto, sia volendolo,  la riattivazione dei servizi bancari bloccati.

Per poter procedere in tal senso è necessario, però, che vi sia il requisito del periculum in mora. È cioè necessario  che al titolare superstite derivi  dal blocco del conto corrente un danno grave ed irreparabile, che non gli consente di attendere i tempi più lunghi di un giudizio ordinario (cfr Tribunale Catanzaro, ord. 29 giugno 2022) .

Questo danno grave ed irreversibile si può ravvisare, ad esempio nel caso in cui il titolare superstite disponga solo di quel conto, sul quale confluiscono tutti i suoi proventi, il cui blocco gli impedisce, conseguentemente, di poter prelevare denaro per provvedere alle esigenze del vivere quotidiano.

Avv. Paola Martino

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assegno divorzile

Assegno Divorzile, recentissima sentenza Corte di Cassazione

Cessazione o revisione dell’Assegno Divorzile a seguito di instaurazione di una nuova stabile convivenza
Gli ultimi orientamenti della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza, ha escluso che la comprovata instaurazione, successivamente allo scioglimento del matrimonio, di una convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno, comporti automaticamente la perdita del medesimo assegno divorzile, ovvero la relativa riduzione, purché ricorrano determinate condizioni.
Questo il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, cui i giudici di merito, in situazioni analoghe, dovranno sostanzialmente uniformarsi:

“L’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno.
Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche all’attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge, in funzione esclusivamente compensativa.
A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge.
Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniale nè alla nuova condizione di vita dell’ex coniuge ma deve essere quantificato alla luce dei principi suesposti, tenuto conto, altresì della durata del matrimonio“.

Esaminiamone, punto per punto, il significato.
La Corte di Cassazione nella sentenza in commento esclude che la instaurazione di una stabile convivenza di fatto comporti automaticamente il venir meno dell’assegno divorzile ove ricorrano due sostanziali condizioni in capo al coniuge economicamente più debole, che richiede il permanere di detto assegno, ovvero che si opponga alla relativa riduzione.
La prima condizione è l’ex coniuge beneficiario sia privo di mezzi adeguati per il proprio mantenimento e si trovi nella impossibilità incolpevole di procurarseli e che questa mancanza di mezzi adeguati sia imputabile a sue scelte personali – quali la rinuncia ad effettive possibilità di carriera e di crescita professionale – fatte in condivisione con l’altro coniuge all’interno di un progetto comune, a beneficio dell’unione familiare.
In altri termini, è necessario che la condizione di maggiore debolezza di uno dei due ex coniugi derivi da relative pregresse scelte di vita, fatte in funzione della famiglia e del benessere anche economico di quest’ultima.
La seconda condizione è correlata alla prima, ovvero è necessario che l’assegno divorzile sia stato riconosciuto al coniuge più debole, ma comunque economicamente autosufficiente, in quanto la sua maggiore debolezza economica trovi la sua causa nei sacrifici fatti in nome della famiglia.

È cioè necessario che l’assegno, che l’ex coniuge più debole vuole conservare, malgrado l’instaurazione di una sua nuova stabile convivenza di fatto, abbia una funzione compensativa/perequativa, ovvero venga riconosciuto per l’appunto per compensarlo delle relative scelte economicamente penalizzanti, fatte, di comune accordo con l’altro, per contribuire alla formazione del patrimonio familiare e dell’ex coniuge.

Pertanto, in presenza di queste due condizioni – assenza di mezzi adeguati ed assegno di mantenimento con funzione compensativa – l’istaurazione di una nuova convivenza non comporta automaticamente il venir meno dell’assegno, ovvero la relativa riduzione.

nuova convivenza

In quanto, se è vero che la instaurazione di una stabile convivenza costituisce, da un lato, espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole e comporta, dall’altro, l’assunzione di responsabilità verso il nuovo partner e il nuovo nucleo familiare, è altresì vero che la creazione di una nuova famiglia di fatto non cancella di per sé tutti i sacrifici fatti dall’ex coniuge a favore della precedente famiglia, con conseguente conservazione del diritto al mantenimento dell’assegno divorzile, o meglio di quella parte dell’assegno, la cui finalità sia proprio quella di compensare l’ex coniuge di tutto quanto ha rinunciato.

Infatti, la funzione compensativa/perequativa dell’assegno non ha alcun collegamento con il nuovo progetto di vita nato con la creazione della nuova famiglia di fatto e non può, quindi, essere sostituita dalla solidarietà che si costituisce all’interno della nuova coppia, in quanto l’altro componente di detta nuova coppia non deve nei confronti dell’ex coniuge alcuna concreta “riconoscenza” per i sacrifici che lo stesso ha fatto nei confronti della pregressa famiglia.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, è l’ex coniuge onerato della corresponsione dell’assegno di mantenimento, che chiede la relativa esclusione, ovvero la relativa riduzione alla sola componente compensativa, a dover provare la ricorrenza di detta convivenza di fatto e della relativa stabilità.

A tal proposito indice di stabilità sono certamente la nascita di figli, la coabitazione, l‘avere conti correnti in comune, la contribuzione al ménage famigliare.

In ogni caso, in considerazione della difficoltà per chi è estraneo ad una coppia di reperire prove circa l’effettiva contribuzione dei conviventi al ménage familiare, si ritiene che onere dell’ex coniuge che vuole “liberarsi” della corresponsione “perenne” dell’assegno sia quello di dimostrare unicamente il carattere stabile della nuova convivenza, spettando al coniuge beneficiario dell’assegno di dimostrare la natura compensativa dello stesso.

Per verificare la possibilità di ottenere nel vostro caso la revoca, ovvero la riduzione dell’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge, potete fissare un primo colloquio orientativo (gratuito) cliccando qui.

Cass. Civ. Sez. Unit. Sent. n. 32198 del 5.11.2021

Avv. Paola Martino

casa coniugale

Perdita casa coniugale con revoca assegno mantenimento

CON LA REVOCA DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEL FIGLIO MAGGIORENNE VIENE MENO L’ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE

La Corte di Cassazione, con la sentenza dell’ 8 novembre 2021, sancisce che con la revoca  dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne che non studia e non lavora, debba essere disposta anche la revoca dell’assegnazione della casa coniugale

La Cassazione prosegue – in quello che può ritenersi ormai un consolidato orientamento – nel disporre la revoca dell’assegno di mantenimento per i figli maggiorenni, quando questi colpevolmente non ricerchino l’autosufficienza- non completando, o andando oltremodo a rilento, nel percorso formativo intrapreso (cui hanno potuto accedere grazie all’impegno dei genitori) – ovvero non si mettano attivamente in condizione di trarre profitto da detto percorso, una volta terminato.

La valutazione circa l’imputabilità al figlio maggiorenne della sua condizione di insufficienza economica è tanto più severa quanto più elevata è l’età del figlio.

Pertanto, anche se non sussiste un termine finale stabilito per legge di persistenza dell’obbligo di mantenimento, il raggiungimento di un’età – quale possono essere i 30 anni e dintorni, durante i quali il percorso di studio o formativo perseguito dovrebbe essere, nella normalità dei casi, concluso, con la conseguenziale entrata del “ragazzo” nel mondo del lavoro – potrebbe esso stesso rappresentare un indicatore di colpevole inerzia del figlio di procurarsi l’autosufficienza economica, con il conseguente venire meno dell’obbligo di mantenimento da parte dei genitori.

Aggiungiamo che il raggiungimento di detta ragguardevole età – nella quale il figlio  si trasforma, volente o nolente, in un adulto responsabile delle proprie scelte, in nome del sacrosanto principio dell’auto responsabilità – comporta anche una diversa valutazione del parametro dell’ “adeguatezza” dell’attività lavorativa rispetto alle inclinazioni personali.

Appena terminato il percorso di studi e/o formativo, il giovane ha diritto di ricercare una attività consona al percorso completato e alle sue aspirazioni.

Ma lo scorrere inesorabile del tempo, senza che il lavoro “adatto” si sia trovato, comporta, proprio per il su richiamato principio di auto responsabilità, che il giovane, divenuto nelle more adulto, debba ridimensionare le proprie aspirazioni adattandole alle condizioni del mercato del lavoro.

In altri termini, i Giudici di legittimità, con la sentenza in parola e con le decisioni pregresse che confermano il medesimo orientamento, precisano che raggiunta un’età adulta, il criterio dell’adeguatezza – sia in ordine al tipo di lavoro che si vuole svolgere, sia in ordine al livello retributivo del lavoro medesimo – diviene relativo.

Ciò significa che se il figlio, raggiunta l’età adulta, si ostini a voler attendere un lavoro necessariamente rispondente alle proprie aspettative, rifiutando le offerte che si presentano, lo stesso potrebbe essere ritenuto dal Giudice – adito dal genitore che vuole cessare di corrispondere il mantenimento –  colpevolmente responsabile del proprio stato di non autosufficienza economica, con conseguente estinzione del relativo diritto ad essere mantenuto dai genitori.

perdita casa coniugale

Revoca assegno mantenimento e contestuale revoca assegnazione casa coniugale

Nel caso che ci occupa la revoca dell’assegno di mantenimento ha comportato anche la contestuale revoca dell’assegnazione della casa coniugale, che, ove di proprietà esclusiva del genitore non collocatario, potrebbe, quindi, rientrare nella sua disponibilità, venendo meno il titolo in forza del quale l’altro genitore ne gode.

Ricordiamo, infatti, come l’assegnazione della casa familiare ad uno dei due genitori, a prescindere dal relativo titolo di proprietà, ha come pressoché unica finalità, quella di garantire la conservazione dell’«habitat» domestico dei figli minori e/o maggiorenni non economicamente autosufficienti.

In altri termini, il godimento della casa coniugale da parte del genitore con il quale convivono prioritariamente i figli è giustificato unicamente dall’interesse dei medesimi a permanere nella casa in cui sono cresciuti, potendo solo in tal modo mantenere le consuetudini di vita e le relazioni sociali che in quell’ambiente domestico si radicano.

Ma se tale assegnazione avviene solo nell’interesse dei figli, questo vuol dire che non vi può essere assegnazione casa familiare ad uno dei  due coniugi o ex coniugi,  in difetto di questo interesse: o perché non vi sono figli, o perché i figli vivono altrove o perchè, come nel caso di specie, il figlio è divenuto economicamente autosufficiente.

Non potendo l’assegnazione della casa coniugale perseguire finalità diverse dalla protezione della prole, la stessa, quindi, non può costituire una modalità di mantenimento del coniuge più debole.

Queste, in merito, le testuali parole della Corte, nella sentenza in commento “l’assegnazione della casa familiare non può assumere una funzione di perequazione delle condizioni patrimoniali dei coniugi, ma ha la finalità di soddisfare l’esigenza di speciale protezione dei figli minori maggiorenni non economicamente autosufficienti ed ha ritenuto, nella specie, in base all’accertamento di fatto di cui si è detto quell’esigenza non sussistente per il figlio maggiorenne, così attenendosi ai principi costantemente affermati da questa Corte e condivisi dal Collegio”.

Alla luce di questa sentenza, pertanto, deve essere valutata con ancora maggiore attenzione ed interesse la possibilità di richiedere la modifica delle condizioni di separazione e/o divorzio, ove i figli per i quali era stato disposto il mantenimento siano diventati autosufficienti.

Questo in quanto, se viene disposto la revoca dell’assegno di mantenimento, contestualmente può essere chiesta anche la revoca dell’assegnazione della casa coniugale, con l’apertura di interessanti scenari per il genitore proprietario, ovvero comproprietario della casa, privato della stessa a seguito della relativa assegnazione all’altro (basti pensare alla possibilità di farsi corrispondere un affitto da parte dell’altro genitore, ove i due decidano di comune accordo che l’altro permanga, comunque, nella casa; ovvero di vendere l’immobile a terzi, libero da ogni provvedimento giudiziario di assegnazione).

Per verificare la possibilità di ottenere nel vostro caso la revoca dell’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne, potete fissare un primo colloquio orientativo (gratuito) cliccando qui.

Sentenza Cassazione Civile n. 32406 del 2021

Avv. Paola Martino

assegno mantenimento coniuge

Assegno Mantenimento Coniuge autosufficiente ma più Debole

Determinazione Assegno di Mantenimento in sede di Divorzio – Riconoscimento del Mantenimento anche in caso di Autosufficienza Economica del Coniuge più debole – Le Nuove Regole dettate dalla Corte di Cassazione.

La Suprema Corte di Cassazione interviene nuovamente in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, confermando, da un lato, l’abbandono del criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma riconoscendo, dall’altro, detto mantenimento, malgrado l’autosufficienza economica del coniuge più debole.

La Suprema Corte di Cassazione con ordinanza del 8 settembre 2021, conferma il suo nuovo orientamento, inaugurato con la sentenza n. 11504 del 2017 e perfezionato con le Sezioni unite del 2018, per il quale l’assegno di mantenimento da destinare al coniuge più debole in sede di divorzio non può essere teso in alcun modo a garantire il pregresso tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale.

Al tempo stesso, però, detto, assegno può essere riconosciuto anche in presenza di autosufficienza economica del coniuge destinatario, qualora lo stesso sia in grado di provare i sacrifici dallo stesso fatti in costanza di matrimonio,  attraverso circostanziate scelte di vite, per venire incontro ai bisogni della famiglia.

In questo caso l’assegno avrà come finalità quello di compensare detto coniuge dei sacrifici fatti in funzione della famiglia, rivelando in tal modo la sua natura compensativa-perequativa.

Circa le modalità di determinazione dell’assegno mantenimento coniuge, l’ordinanza in commento, questo testualmente prevede:

“In definitiva, il giudice deve quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza ma ancorata ad un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, nel qual caso l’assegno deve essere adeguato a colmare lo scarto tra detta situazione ed il livello dell’autosufficienza come individuato dal giudice di merito. Ed inoltre, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l’assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali (che il coniuge richiedente ha l’onere di dimostrare nel giudizio), al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo assistenziale”    

Avv. Paola Martino

affido condiviso

Affido Condiviso e Mantenimento Diretto dei Figli

Figli: i distinguo della Corte di Cassazione sull’affido condiviso e il mantenimento diretto

È possibile che, in caso di affido condiviso, ciascun genitore provveda al mantenimento diretto del figlio, senza corrispondere alcunché all’altro genitore? La risposta, per la Suprema Corte è, sostanzialmente, negativa (cfr. Cass. Ordinanza n. 1722 del 16 giugno 2021)

Una domanda che viene frequentemente posta durante i colloqui presso lo Studio, di solito da parte del genitore economicamente più capiente, in vista della separazione e/o divorzio, è se sia possibile provvedere al mantenimento diretto dei figli, nell’ipotesi in cui lo stesso sia collocato presso i due genitori per un tempo del tutto paritario, escludendo in tal modo la corresponsione di ogni assegno all’altro genitore.

Il ragionamento seguito è di solito il seguente: se mio figlio sta con me e con l’altro genitore per pari tempo (che sia una settimana, un mese ecc..), durante la sua permanenza presso di me provvederò io integralmente al relativo mantenimento e lo stesso farà, nel periodo di sua spettanza, l’altro genitore.

Questo ragionamento non trova però il beneplacito della Suprema Corte di Cassazione, che è intervenuta più volte sul punto, escludendo che l’affido condiviso implichi, come conseguenza automatica, che ciascuno genitore debba provvedere paritariamente in modo diretto ed autonomo al mantenimento dei figli.

Ciò in quanto, se è vero che l’affido condiviso – ormai la norma – implichi una frequentazione paritaria dei genitori con il figlio, nell’interesse morale e materiale di quest’ultimo, è altresì vero che deve essere garantito al figlio una situazione il più confacente possibile al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena.

mantenimento diretto

Vi sono casi in cui una vita perfettamente “suddivisa” tra i due genitori non è concretamente possibile, a causa, ad esempio della distanza tra le due abitazioni della madre e del padre.

In tal caso, applicare rigidamente il criterio dell’affido condiviso significherebbe, imporre al figlio una vita frammentata, onerandolo di tempi e sacrifici di viaggio tali da comprometterne gli studi, il riposo e la vita di relazione.

In questi casi, l’affido condiviso non equivale a perfetta equivalenza di tempo che il figlio trascorre con i due genitori.

Vi sarà in tal caso un c.d. genitore collocatario, ovvero un genitore presso il quale il figlio vivrà prevalentemente, che dovrà, quindi, essere in grado di garantire il medesimo tenore di vita di cui il figlio godeva prima della crisi familiare.

E provvedere alle esigenze del figlio non vuol dire far fronte unicamente all’obbligo alimentare, ma soddisfare una molteplicità di esigenze –  relative, ad esempio,  all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale -;  esigenze tutte queste che presuppongono una stabile organizzazione domestica, che dovrà essere garantita dal genitore convivente che sarà tenuto ad anticipare le relative  spese e a provvedervi nella quotidianità attraverso la necessaria programmazione che connota la vita familiare.

Di qui l’esigenza che l’altro genitore contribuisca con il versamento di un assegno che consentirà al figlio di risentire il meno possibile della crisi familiare, sotto il profilo della sua quotidianità e delle sue abitudini, del suo stile e tenore di vita.

Diverso è il discorso del mantenimento diretto del figlio maggiorenne per il quale si rinvia ad altro articolo specifico sull’argomento.

Avv. Paola Martino

 

assegno mantenimento figlio maggiorenne

Assegno Mantenimento Figlio Maggiorenne Corresponsione Diretta

Assegno mantenimento figlio maggiorenne, nullità dell’accordo per la corresponsione dell’assegno direttamente al figlio maggiorenne

La Corte di Cassazione, con ordinanza del 13 Aprile 2021, ha escluso che i genitori, senza ricorrere all’autorità giudiziaria, possano accordarsi per la corresponsione dell’assegno di mantenimento direttamente al figlio maggiorenne.

Capita spesso –  a seguito di una sentenza di separazione e/o divorzio che statuisce il mantenimento per i figli della coppia – che una volta raggiunta la maggiore età di questi, il genitore onerato del mantenimento –  motivato  a volte da un rapporto fortemente conflittuale con l’altro genitore con il quale i figli convivono prevalentemente –decida, in via unilaterale, o nelle migliori ipotesi, in accordo con l’altro genitore, di corrispondere l’assegno di mantenimento direttamente al figlio e non più all’ex coniuge.

È bene sapere che tale decisione può ritorcersi contro il genitore/debitore dell’assegno, dal momento che i pagamenti effettuati direttamente al figlio non sono validi, nel senso che non lo liberano dell’obbligazione mensile di mantenimento, e possono essere, pertanto, richiesti nuovamente dall’altro genitore, con conseguente versamento della medesima somma per due volte.

Ciò, come detto, anche nella ipotesi in cui l’altro genitore abbia manifestato il suo consenso a che l’assegno venga versato direttamente al figlio.

corte di cassazione

La Suprema Corte di Cassazione ha infatti rilevato, nella sopra indicata ordinanza che “la determinazione dell’assegno i mantenimento dei figli, da parte del coniuge, separato (o divorziato n.d.r.)  risponde ad un superiore interesse di quelli, interesse che non è disponibile dalle parti”

Questo significa che una volta che il provvedimento del Giudice ha stabilito chi è il debitore dell’assegno di mantenimento e chi è il creditore, le parti non possano modificare detta statuizione, se non ricorrendo nuovamente all’Autorità giudiziaria.

L’unico rimedio che hanno a disposizione i genitori ed il figlio è che il genitore/creditore dell’assegno indichi, all’altro genitore/debitore, nel figlio il soggetto legittimato a ricevere l’assegno.

Ciò in quanto l’art. 1188 Cod. Civ. prevede che il pagamento possa essere effettuato, oltre che direttamente al creditore, anche alla persona indicata dal creditore medesimo, in questo caso il figlio.

Con questo escamotage il pagamento effettuato dal genitore al figlio sarà valido ed estintivo dell’obbligazione mensile, in quanto i genitori del figlio maggiorenne non si sono accordati per mutare la persona del creditore –  dal genitore al figlio –  ma solo per mutare il soggetto legittimato a ricevere l’assegno, che rimane di competenza dell’altro genitore.

Si tratta di una soluzione non pienamente soddisfacente, in quanto, da un lato, il figlio non potrà disporre liberamente dell’assegno – ma dovrà, ove richiesto, corrisponderlo al genitore  con il quale convive.-, dall’altro tale indicazione del figlio come soggetto legittimato al pagamento è suscettibile di essere revocata in ogni tempo dal genitore avente diritto.

Tuttavia tale soluzione mette, comunque, il genitore tenuto a versare il mantenimento  al riparo da richieste dell’altro genitore di corresponsione di somme già versate.

L’unica strada che consentirebbe al figlio di disporre liberamente dell’importo dell’assegno e al genitore/debitore di mettersi al riparo da ripensamenti dell’altro è quella di adire nuovamente l’Autorità giudiziaria per ottenere una modifica delle condizioni di separazione/divorzio con specifico riferimento al mantenimento dei figli.

Alla luce di quanto sopra si consiglia, in via generale, di non procedere, sia di propria iniziativa, sia con l’accordo dell’ex coniuge, alla modifica delle condizioni di separazione e/o divorzio senza prima aver consultato il proprio avvocato, al fine di evitare di incorrere in spiacevoli sorprese.

Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 11/12/2020) 13-04-2021, n. 9700

Avv. Paola Martino

 

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