Author Archives: maria testa

figlio maggiorenne

Figlio maggiorenne ed ingresso nel mondo del lavoro

Il figlio maggiorenne, terminato il proprio ciclo di formazione ed entrato nel mondo del lavoro, perde il diritto ad essere mantenuto dai genitori

Con l’ordinanza in commento (n. 19696 del 22 luglio 2019),  la Corte di Cassazione conferma il proprio orientamento, per il quale il figlio maggiorenne perde il diritto all’assegno di mantenimento, tutte le volte in cui, completato il proprio percorso formativo (sia esso di studio, ovvero professionale) trovi una occupazione che, ancorché retribuita modestamente,  lo introduca nel mondo del lavoro, preludendo ad una successiva spendita della capacità lavorativa acquisita a rendimenti crescenti

Lo svolgimento di un lavoro di tal fatta consente, infatti,  di affermare che il figlio maggiorenne abbia raggiunto un sufficiente grado di capacità lavorativa che, essendo utilmente spendibile nel mercato del lavoro, consente allo stesso di rendersi  autosufficiente.

La giurisprudenza della Suprema Corte è, infatti, consolidata nel ritenere che l’obbligo di mantenimento dei genitori – in proporzione alle relative risorse economiche  – permane oltre il raggiungimento della maggiore età del figlio, sin quando lo stesso non completi, nei tempi ordinari, il percorso formativo dallo stesso prescelto, al fine di acquisire una capacità lavorativa idonea a renderlo autosufficiente.

Ne consegue come l’inizio dello svolgimento di una attività lavorativa,  conforme alla capacità lavorativa acquisita, consente di ritenere che la stessa si sia conclusa, con conseguente perdita del diritto al mantenimento.

Circa l’onere della prova, la Suprema Corte afferma  che debba essere il genitore, che vuole liberarsi dell’obbligo di mantenimento, a dimostrare che il figlio maggiorenne abbia completato la sua formazione ed abbia, quindi, raggiunto  un capacità lavorativa spendibile sul mercato del lavoro.

Di contro, il figlio, che vuole dal suo canto essere mantenuto, dovrà dimostrare la non imputabilità alla sua colpa o negligenza nel mancato reperimento di una attività lavorativa sufficientemente remunerativa, nonostante il completamento del suo ciclo di formazione.

Si evidenzia che una volta che il Giudice abbia sancito con provvedimento definitivo – ovvero non più impugnabile –  la perdita del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne, questo diritto non potrà più rivivere, anche nell’ipotesi di perdita e/o di riduzione da parte del figlio della attività lavorativa intrapresa, non importa per quali ragioni.

Ciò comporta che la richiesta di soppressione dell’assegno di mantenimento  a favore del figlio maggiorenne verrà vagliata dal Giudice con molta attenzione, nella consapevolezza che, una volta escluso detto mantenimento lo stesso non potrà più risorgere.

Rimane fermo per il figlio, come per l’ex coniuge, il diritto agli alimenti, ove lo stesso versi in comprovato  stato di bisogno.

Quindi riassumendo:

  • I genitori sono tenuti a mantenere i figli, oltre il raggiungimento della maggiore età, per consentirgli di acquisire, attraverso un percorso universitario o professionale, una capacità lavorativa che possa essere impiegata nel mondo del lavoro, con conseguente remunerazione idonea a rendere il figlio indipendente;
  • Ove, il figlio, terminata la propria formazione, intraprenda una attività lavorativa corrispondente alla capacità lavorativa acquista attraverso il percorso formativo pagato dai genitori, lo stesso può dirsi divenuto indipendente, anche se la remunerazione del suo lavoro sia, all’inizio, inferiore rispetto alla capacità lavorativa acquisita, ove il lavoro trovato lasci presumere maggiori futuri guadagni.
  • In questo caso il genitore tenuto al mantenimento può richiedere un provvedimento giudiziale di esclusione, totale o parziale, dello stesso.
  • Una volta escluso, il mantenimento non potrà essere nuovamente riconosciuto in capo al figlio, anche se lo stesso perda o veda contrarsi il lavoro acquisito

Avv. Paola Martino

Per ulteriori approfondimenti clicca qui:   figli maggiorenni disoccupati – quando viene meno l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori?

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esenzione imu

Esenzione IMU a coppie coniugate o di fatto e unioni civili

A seguito della recentissima decisione della Corte Costituzionale, anche le coppie coniugate, o unite civilmente, avranno diritto alla duplice esenzione IMU, ove risiedano e dimorino abitualmente in due case diverse.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 209 del 2022 del 13 ottobre 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che, ai fini dell’esenzione IMU, statuivano che “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»;

Presupposti dell’esenzione IMU prima della dichiarazione di incostituzionalità delle norme in commento –  Differenze tra coppie di fatto e coppie di fatto o unite civilmente

Prima di questa pronuncia di incostituzionalità, vi era, sotto il profilo dell’esenzione IMU, una sostanziale ed ingiustificata differenza tra chi era single, ovvero aveva costituito una coppia di fatto, e chi, invece, aveva deciso di formalizzare la propria unione mediante matrimonio, oppure unione civile.

Infatti, i single, ovvero le coppie di fatto, ai fini dell’esenzione IMU, dovevano (e devono tutt’ora) unicamente dimostrare di risiedere e dimorare abitualmente nell’immobile di cui sono possessori. Con la conseguenza che se i due membri della coppia di fatto risiedono in due immobili diversi, ciascuno di loro avrà certamente diritto all’esenzione in parola.

Per le coppie coniugate, o unite civilmente, prima dell’intervento della Corte Costituzionale in commento, invece, il trattamento era decisamente deteriore, anche per l’interpretazione della legge che ne dava la Corte di Cassazione, in considerazione del riferimento delle norme ai componenti del nucleo familiare che, ai fini dell’esenzione IMU, dovevano necessariamente risiedere nello stesso immobile con il relativo possessore.

Il Giudice di legittimità era, invero, giunto ad affermare che nel caso due persone legate da matrimonio, o da unione civile, fossero in possesso di due immobili presenti nello stesso comune, solo uno di essi poteva godere dell’esenzione.

Se poi gli immobili si trovavano in due comuni diversi, allora la Cassazione sosteneva che  nessun membro della coppia sposata, o unita civilmente, potesse godere del beneficio, in quanto in tal caso nessuno dei loro immobili avrebbe potuto essere considerato abitazione principale e, quindi, beneficiare dell’esenzione.

Proprio per arginare questa interpretazione restrittiva, il legislatore è intervenuto con l’art. 5-decies, comma 1, del d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2021, n. 215, stabilendo che: nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare.

Ragioni per le quali la Corte Costituzionale ha pronunciato l’incostituzionalità delle norme in commento

Me secondo la Corte Costituzionale questa apertura del legislatore non era comunque sufficiente, in quanto lasciava intatta la ingiustificata discriminazione tra coppie di fatto e coppie coniugate, o unite civilmente, dal momento che queste ultime per godere dell’esenzione IMU dovevano dimostrare, comunque, un qualcosa in più rispetto alla prime, ossia la residenza e dimora abituale nell’immobile per cui si chiedeva l’esenzione  non solo del possessore dell’immobile medesimo, ma anche del relativo nucleo familiare, laddove invece per le coppie di fatto questa doppia residenza non era richiesta.

Inoltre le coppie coniugate, o unite civilmente, potevano comunque godere di una sola esenzione, anche se proprietari di due immobili, anziché di due, come accadeva per le coppie di fatto se proprietari ciascuno di un immobile.

Questo pertanto il ragionamento seguito dalla Corte per dichiarare l’illegittimità delle norme in commento.

Secondo la Corte, nell’attuale momento socio/economico, contraddistinto dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dalla velocizzazione dei sistemi di trasporto e dall’evoluzione delle abitudini di vita, non può ritenersi affatto raro e inusuale che i membri di una coppia, pur mantenendo intatta la loro comunione materiale e spirituale, vivano “separati”, ovvero in luoghi diversi per riunirsi periodicamente.

Dal momento che l’IMU, prosegue la Corte nel suo ragionamento, è una imposta di natura reale –  presupponendo il possesso, la proprietà, o la titolarità di altro diritto reale, in relazione a beni immobili per i quali si chiede l’esenzione e non un imposta di tipo personale – il correlare la relativa esenzione alla tipologia di rapporto personale che il possessore dell’immobile istaura con un’altra persona è del tutto incoerente ed illogico e, quindi, per l’appunto incostituzionale.

Regole che presiedono l’esenzione IMU per le coppie coniugate o unite civilmente a seguito della decisione della Corte Costituzionale

Pertanto, a seguito della pronuncia di incostituzionalità in commento, i membri di una coppia coniugata, o unita civilmente, possono, in primo luogo, godere entrambi dell’esenzione IMU per i rispettivi immobili, siano essi presenti in uno stesso Comune o in Comune diversi, purchè in detti immobili ciascuno di essi abbia la residenza e la dimora abituali.

In secondo luogo, ai fini dell’esenzione IMU è sufficiente che nell’immobile per cui si chieda l’esenzione vi risieda e dimori stabilmente unicamente il relativo possessore, essendo venuto meno il riferimento alla contemporanea residenza di ogni componente del nucleo familiare.

Ovviamente perché anche le coppie coniugate, o unite civilmente, possano godere della doppia esenzione, al pari delle coppie di fatto possessori di due distinti immobili, è necessaria che la residenza e dimora abituale in ciascuno dei due immobili per i quali si chiede l’esenzione siano effettive.

A tale fine, rileva la Corte che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, come ad esempio il controllo dell’effettivo consumo di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi, che costituiscono un indice certamente valido della ricorrenza o meno di una effettiva residenza.

Nel pronunciare la declaratoria di illegittimità costituzionale di tali norme, il Giudice delle leggi ha comunque escluso che l’esenzione IMU spetti per le “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile.

Diritto al rimborso

A seguito della pronuncia della Corte Costituzionale in commento, è possibile richiedere il rimborso delle somme pagate e non dovute a titolo di IMU  fino a 5 anni precedenti, considerando, nello specifico, il termine del quinquennio a partire dal versamento ex art. 1, comma 164 della Legge 296/2006.

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Sentenza n. 209 del 2022 del 13 ottobre 2022

Avv. Paola Martino

contratto di locazione

Immobile danneggiato dopo scadenza contratto di locazione?

Locazioni: che fare se, alla scadenza del contratto di locazione, l’immobile risulta gravemente danneggiato

Quali opzioni ha il locatore, quando alla scadenza del contratto di affitto, scopre che l’immobile è gravemente danneggiato, oppure presenta innovazioni contrattualmente non consentite?

Alla scadenza del contratto di affitto, i proprietari di casa hanno a volte delle brutte sorprese, trovando il loro immobile gravemente danneggiato, oppure con rilevanti innovazioni che il contratto di locazione non consente.

PUO’ IN QUESTI CASI IL PROPRIETARIO RIFIUTARE DI PRENDERE IN CONSEGNA L’IMMOBILE E SINO A QUANDO?

Sul punto è intervenuta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione che ha dato risposta affermativa alla domanda (Cassazione con ordinanza 23 settembre 2022, n. 27932).

In caso di immobile gravemente danneggiato o con modificazioni non consentite, il proprietario, alla scadenza del contratto, può rifiutare la consegna dell’immobile offerta dal conduttore, sin quando quest’ultimo non risarcisca i danni apportati e/o elimini le innovazioni non consentite

QUALI SONO LE CONSEGUENZE PER IL CONDUTTORE?

Dal momento che il rifiuto del locatore nel prendere in consegna il bene, nonostante la scadenza del contratto, trova la sua giustificazione nel mancato  pagamento da parte del conduttore dell’importo necessario a risarcire i danni, quest’ultimo, malgrado l’offerta di riconsegna l’immobile, rimane, sin quando non effettua il detto pagamento, comunque in mora nella restituzione bene.

Questa mora comporta che il conduttore sia tenuto a corrispondere il canone di locazione sin quando non saldi quando necessario all’eliminazione dei danni e/o delle innovazioni, anche se l’immobile locato non sia più in suo uso.

Ne consegue come il locatore – avendo diritto tanto al pagamento dell’importo idoneo ad eliminare i danni e/o le innovazioni, quanto al pagamento del canone, di locazione sin quando questo importo non venga pagato – riesca in tal modo ad essere totalmente indennizzato.

COSA ACCADE SE IL PROPRIETARIO, ALLA SCADENZA DEL CONTRATTO, RITIENE DI PRENDERE COMUNQUE IN CONSEGNA IL BENE, MALGRADO LO STESSO PRESENTI DEI DANNI RILEVANTI

Se il locatore, alla scadenza del contratto, malgrado la presenza di rilevanti danni all’interno dell’immobile, che vanno ben al di là del normale stato di usura, e che non gli consentono di rilocare il bene nell’immediatezza, decide di prenderlo ugualmente in consegna, in questo caso egli avrà diritto non solo al risarcimento del danno, ma anche al pagamento dei canoni di locazione da parte del conduttore, malgrado lo stesso abbia riconsegnato il bene.

La giurisprudenza della Suprema Corte è, invero, sul punto consolidata nel ritenere che il conduttore debba, nel caso di specie, non solo corrispondere al locatore le somme necessarie ad eliminare i danni dallo stesso arrecati, ma sia, altresì, tenuto a pagare, nonostante non ne usufruisca più, il canone di locazione per tutto il tempo necessario alla ristrutturazione dell’immobile, purché tempestivamente iniziata e diligentemente perseguita.

Si aggiunga, infine, come l’obbligo del conduttore del pagamento del canone, nell’ipotesi in parola, non sia subordinata alla prova da parte del locatore di aver ricevuto – da parte di terzi – richieste di locazione, cui non ha potuto dare seguito a causa dei lavori da svolgersi, essendo detto pagamento dovuto per il solo fatto dell’intervenuto danneggiamento: ex multis Cass. ordinanza n. 6596 del 2019 “ Qualora, in violazione dell’art. 1590 cod. civ., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto – da p arte di terzi – richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori.

Avv. Paola Martino

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conto corrente cointestato

Conto Corrente Cointestato – Morte di uno dei due Titolari

In caso di rapporti di conto corrente cointestati è illegittimo il relativo blocco da parte degli Istituti di Credito in caso di decesso di uno dei due titolari.

In presenza di un conto corrente cointestato, in caso di morte di uno dei due titolari, gli Istituti di credito procedono usualmente al blocco del conto corrente medesimo, senza peraltro darne notizia all’altro cointestatario che si ritrova, da un giorno all’altro, estromesso dallo stesso, privato della possibilità di accedere ai suoi stessi soldi, stante la sospensione generalizzata di tutti i servizi bancari.

Ma è legittimo il blocco del conto cointestato corrente in caso di decesso di uno dei due titolari da parte dell’istituto di credito?

La risposta è no. 

La giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza n. 7862/2021) è costante nell’affermare che nel caso di  cointestazione di un conto corrente /deposito bancario,  ove i cointestatari abbiano il potere di compiere disgiuntamente tutte le operazioni attive e passive, questo potere permane sino all’estinzione del rapporto, anche in caso di morte di uno dei due titolari, in quanto  la cointestazione del conto dà luogo ad una solidarietà dal lato attivo dell’obbligazione, che permane anche a seguito di morte di uno dei due titolari.

Cosa comporta il permanere di questa solidarietà attiva, a seguito della morte di uno dei due intestatari del conto?

Il permanere di questa solidarietà attiva comporta che il titolare superstite possa prelevare l’intero importo presente sul conto, senza che l’istituto di credito possa opporsi, invocando le norme sulle successioni.

L’istituto di credito, infatti, corrispondendo l’intero saldo al titolare superstite si libera di ogni obbligazione nei confronti degli eredi e non può essere chiamato a rispondere delle somme prelevate dal cointestatario, anche se si tratta dell’intero saldo presente sul conto.

Cosa fare nel caso in cui l’istituto di credito non voglia procedere allo sblocco del conto corrente?

È possibile proporre un ricorso per provvedimento di urgenza ex art. 700 Cod.Proc. Civ., facendo precedere questo ricorso da una diffida alla banca da parte dell’Avvocato di vostra fiducia, dal momento che in alcuni casi una diffida ben confezionata è idonea a sbloccare la situazione, evitando in tal modo il ricorso all’Autorità giudiziaria.

Ove la diffida non produca l’effetto sperato, il procedimento d’urgenza ex art. 700 Cod.Proc. Civ consente di ottenere in tempi ragionevolmente brevi,  sia la liquidazione dell’intero saldo del conto, sia volendolo,  la riattivazione dei servizi bancari bloccati.

Per poter procedere in tal senso è necessario, però, che vi sia il requisito del periculum in mora. È cioè necessario  che al titolare superstite derivi  dal blocco del conto corrente un danno grave ed irreparabile, che non gli consente di attendere i tempi più lunghi di un giudizio ordinario (cfr Tribunale Catanzaro, ord. 29 giugno 2022) .

Questo danno grave ed irreversibile si può ravvisare, ad esempio nel caso in cui il titolare superstite disponga solo di quel conto, sul quale confluiscono tutti i suoi proventi, il cui blocco gli impedisce, conseguentemente, di poter prelevare denaro per provvedere alle esigenze del vivere quotidiano.

Avv. Paola Martino

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spese condominiali

Spese Condominiali- coniuge assegnatario casa coniugale

Spese Condominiali – Nessuna Azione Diretta dell’Amministratore nei confronti del Coniuge Assegnatario della Casa Coniugale

Il coniuge, al quale in sede di separazione e/o di divorzio venga disposta l’assegnazione della casa coniugale in ragione della presenza di figli minorenni e/o non economicamente autosufficienti e che non sia titolare di alcuna quota di proprietà della casa medesima, diviene titolare, sull’abitazione, unicamente di un diritto personale di godimento, opponibile ai terzi.

Dal momento che, per recupero dei contributi relativi la manutenzione e l’esercizio delle parti e dei servizi comuni, si può validamente agire sono nei confronti dell’effettivo condomino – cioè del proprietario dell’immobile o del titolare del diritto reale sull’immobile medesimo – l’Amministratore di condominio potrà agire in via giudiziaria solo nei confronti del coniuge proprietario dell’immobile, mentre alcuna azione è consentita nei confronti dei coniuge mero assegnatario.

Così ha statuito una recentissima ordinanza del maggio del 2022 della Suprema Corte di Cassazione, che ha ritenuto che nei rapporti fra Condominio e singoli partecipanti ad esso, non vi siano le condizioni per l’operatività del principio  dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede.

Pertanto, sebbene il coniuge assegnatario della casa possa apparire come condomino a tutti gli effetti, ciò non muta la sua condizione di mero titolare di un diritto di godimento, con conseguente difetto di legittimazione passiva nel giudizio intentato dall’Amministratore per il recupero delle spese condominiali.

La Suprema Corte ha, però, d’altra parte, precisato che, sebbene il godimento della casa coniugale sia  caratterizzata da un’essenziale gratuità –  nel senso che il coniuge assegnatario non è tenuto a corrispondere  all’altro coniuge, alcunché per detto godimento –  è altresì vero che le spese correlate all’uso dell’immobile assegnato sono, in ogni caso di sua competenza, salvo che il Giudice della separazione e/o del divorzio non le ponga a carico dell’altro coniuge, come, ad esempio, contributo al mantenimento del coniuge assegnatario.

Ciò significa che, ove il coniuge assegnatario della casa non corrisponda dette spese e l’Amministratore del Condominio sia costretto a rivolgersi al coniuge proprietario per recuperarle, quest’ultimo potrà poi agire nei confronti del coniuge assegnatario per ottenere il rimborso di tutto quanto corrisposto all’Amministratore per effetto della relativa azione giudiziaria.

Avv. Paola Martino

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casa coniugale

Perdita casa coniugale con revoca assegno mantenimento

CON LA REVOCA DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEL FIGLIO MAGGIORENNE VIENE MENO L’ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE

La Corte di Cassazione, con la sentenza dell’ 8 novembre 2021, sancisce che con la revoca  dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne che non studia e non lavora, debba essere disposta anche la revoca dell’assegnazione della casa coniugale

La Cassazione prosegue – in quello che può ritenersi ormai un consolidato orientamento – nel disporre la revoca dell’assegno di mantenimento per i figli maggiorenni, quando questi colpevolmente non ricerchino l’autosufficienza- non completando, o andando oltremodo a rilento, nel percorso formativo intrapreso (cui hanno potuto accedere grazie all’impegno dei genitori) – ovvero non si mettano attivamente in condizione di trarre profitto da detto percorso, una volta terminato.

La valutazione circa l’imputabilità al figlio maggiorenne della sua condizione di insufficienza economica è tanto più severa quanto più elevata è l’età del figlio.

Pertanto, anche se non sussiste un termine finale stabilito per legge di persistenza dell’obbligo di mantenimento, il raggiungimento di un’età – quale possono essere i 30 anni e dintorni, durante i quali il percorso di studio o formativo perseguito dovrebbe essere, nella normalità dei casi, concluso, con la conseguenziale entrata del “ragazzo” nel mondo del lavoro – potrebbe esso stesso rappresentare un indicatore di colpevole inerzia del figlio di procurarsi l’autosufficienza economica, con il conseguente venire meno dell’obbligo di mantenimento da parte dei genitori.

Aggiungiamo che il raggiungimento di detta ragguardevole età – nella quale il figlio  si trasforma, volente o nolente, in un adulto responsabile delle proprie scelte, in nome del sacrosanto principio dell’auto responsabilità – comporta anche una diversa valutazione del parametro dell’ “adeguatezza” dell’attività lavorativa rispetto alle inclinazioni personali.

Appena terminato il percorso di studi e/o formativo, il giovane ha diritto di ricercare una attività consona al percorso completato e alle sue aspirazioni.

Ma lo scorrere inesorabile del tempo, senza che il lavoro “adatto” si sia trovato, comporta, proprio per il su richiamato principio di auto responsabilità, che il giovane, divenuto nelle more adulto, debba ridimensionare le proprie aspirazioni adattandole alle condizioni del mercato del lavoro.

In altri termini, i Giudici di legittimità, con la sentenza in parola e con le decisioni pregresse che confermano il medesimo orientamento, precisano che raggiunta un’età adulta, il criterio dell’adeguatezza – sia in ordine al tipo di lavoro che si vuole svolgere, sia in ordine al livello retributivo del lavoro medesimo – diviene relativo.

Ciò significa che se il figlio, raggiunta l’età adulta, si ostini a voler attendere un lavoro necessariamente rispondente alle proprie aspettative, rifiutando le offerte che si presentano, lo stesso potrebbe essere ritenuto dal Giudice – adito dal genitore che vuole cessare di corrispondere il mantenimento –  colpevolmente responsabile del proprio stato di non autosufficienza economica, con conseguente estinzione del relativo diritto ad essere mantenuto dai genitori.

perdita casa coniugale

Revoca assegno mantenimento e contestuale revoca assegnazione casa coniugale

Nel caso che ci occupa la revoca dell’assegno di mantenimento ha comportato anche la contestuale revoca dell’assegnazione della casa coniugale, che, ove di proprietà esclusiva del genitore non collocatario, potrebbe, quindi, rientrare nella sua disponibilità, venendo meno il titolo in forza del quale l’altro genitore ne gode.

Ricordiamo, infatti, come l’assegnazione della casa familiare ad uno dei due genitori, a prescindere dal relativo titolo di proprietà, ha come pressoché unica finalità, quella di garantire la conservazione dell’«habitat» domestico dei figli minori e/o maggiorenni non economicamente autosufficienti.

In altri termini, il godimento della casa coniugale da parte del genitore con il quale convivono prioritariamente i figli è giustificato unicamente dall’interesse dei medesimi a permanere nella casa in cui sono cresciuti, potendo solo in tal modo mantenere le consuetudini di vita e le relazioni sociali che in quell’ambiente domestico si radicano.

Ma se tale assegnazione avviene solo nell’interesse dei figli, questo vuol dire che non vi può essere assegnazione casa familiare ad uno dei  due coniugi o ex coniugi,  in difetto di questo interesse: o perché non vi sono figli, o perché i figli vivono altrove o perchè, come nel caso di specie, il figlio è divenuto economicamente autosufficiente.

Non potendo l’assegnazione della casa coniugale perseguire finalità diverse dalla protezione della prole, la stessa, quindi, non può costituire una modalità di mantenimento del coniuge più debole.

Queste, in merito, le testuali parole della Corte, nella sentenza in commento “l’assegnazione della casa familiare non può assumere una funzione di perequazione delle condizioni patrimoniali dei coniugi, ma ha la finalità di soddisfare l’esigenza di speciale protezione dei figli minori maggiorenni non economicamente autosufficienti ed ha ritenuto, nella specie, in base all’accertamento di fatto di cui si è detto quell’esigenza non sussistente per il figlio maggiorenne, così attenendosi ai principi costantemente affermati da questa Corte e condivisi dal Collegio”.

Alla luce di questa sentenza, pertanto, deve essere valutata con ancora maggiore attenzione ed interesse la possibilità di richiedere la modifica delle condizioni di separazione e/o divorzio, ove i figli per i quali era stato disposto il mantenimento siano diventati autosufficienti.

Questo in quanto, se viene disposto la revoca dell’assegno di mantenimento, contestualmente può essere chiesta anche la revoca dell’assegnazione della casa coniugale, con l’apertura di interessanti scenari per il genitore proprietario, ovvero comproprietario della casa, privato della stessa a seguito della relativa assegnazione all’altro (basti pensare alla possibilità di farsi corrispondere un affitto da parte dell’altro genitore, ove i due decidano di comune accordo che l’altro permanga, comunque, nella casa; ovvero di vendere l’immobile a terzi, libero da ogni provvedimento giudiziario di assegnazione).

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Sentenza Cassazione Civile n. 32406 del 2021

Avv. Paola Martino

delibere condominiali

Impugnazione delibere condominiali e termini di decadenza

Impugnazione delle delibere condominiali: il difficile rapporto tra mediazione e termini di decadenza

Mentre le delibere condominiali nulle possono essere impugnate in ogni tempo (salva la prescrizione e l’usucapione) le delibere condominiali annullabili (per la distinzione si veda Cass. SS.UU. sent. 9839 del 14.4.2021; Cass. SS.UU. sent. 4806 del 7.3.2005) possono essere impugnate (da chi non abbia votato a favore) dinanzi all’autorità giudiziaria entro il termine di decadenza di 30 giorni decorrenti dalla data di adozione, per i presenti (sia di persona che per delega), o dalla data di comunicazione del relativo verbale, per gli assenti.

A seguito della introduzione anche in Italia dell’istituto della mediazione civile e commerciale (D.Lgs. n. 28 del 2010), si è stabilito che per alcune materie l’esperimento del procedimento di mediazione fosse obbligatorio, di guisa che il procedimento dinanzi al Giudice non potesse essere portato avanti se non dopo tale esperimento. Tra tali materie vi è quella del condominio, e pacificamente si ricomprendono in tale materia le controversie relative alla impugnazione delle delibere assembleari annullabili.

Conseguentemente nel suddetto termine di decadenza di 30 giorni occorre dar corso alla procedura di mediazione. Tale procedura impedisce la decadenza suddetta e ove la stessa si concluda positivamente, si sarà raggiunto lo scopo della nuova disciplina, ossia ridurre il contenzioso nelle aule di giustizia; ove si concluda negativamente, dal deposito del verbale di accertamento di tale esito negativo, decorrerà un nuovo termine di 30 giorni per introdurre la lite dinanzi al Giudice (cfr. Sentenza Tribunale Brescia, sent. 648 del 18.3.2020; Trib. Sondrio, sent. 25.1.2019; Trib. Monza, sent. 65 del 12.1.2016).

Il procedimento di mediazione deve concludersi entro 90 giorni (salvo che le parti concordemente intendano prorogare tale termine) dalla data di deposito della domanda di mediazione (art. 6).

L’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 succitato stabilisce che: “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale di cui all’art. 11 presso la segreteria dell’Organismo” (di Mediazione).

L’art. 8 stabilisce che: “1. All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante.”.

Per il combinato disposto dei due articoli precedenti, la comunicazione che produce gli effetti di interrompere la prescrizione e di evitare la decadenza è quella con la quale l’Organismo comunica la domanda e la data del primo incontro. Tale comunicazione può avvenire anche a cura della parte istante.

Ma cosa accade se la domanda di mediazione è proposta nel termine di decadenza, ma la comunicazione della stessa e della data del primo incontro sono comunicate dopo tale termine? Ovvero come impedire la decadenza?

scadenza mediazione

E’ necessaria la comunicazione della istanza e dalla fissazione della data dell’incontro nel termine di decadenza o di prescrizione

Una prima interpretazione si limita al dato temporale, e quindi ritiene che solo se la comunicazione (della domanda e della data dell’incontro) perviene entro i 30 giorni si evita la decadenza. E tale interpretazione poggia anche sul fatto che tale comunicazione potrebbe avvenire anche a cura della parte istante, come recita la norma di legge (cfr. Trib Roma, sent. 3159 del 23.2.2021, che richiama App Genova sent. 946 del 2018 e Trib. Napoli, sent. 4.12.2019, richiamando la previsione della notifica a cura della parte ex art. 6. Co 1, D.Lgs. 28 del 2010; conformi anche App. Milano, sent. 253 del 27.1.2020; Trib. Savona, sent. 111 del 8.2.2019; Cass. sent. 2273 del 28.1.2019; Trib. Genova, sent, 1665 del 11.6.2018; Trib. Ivrea, sent. 348 del 6.4.2018; App. Palermo sent. 27.6.2017; Trib. Messina, sent. 72 del 11.1.2018; Trib. Palermo, sent. 18.9.2015; in specie Trib. Roma, sent. 20267 del 22.10.2019, come i precedenti, parla proprio di comunicazione sia della domanda che della data dell’incontro). Tuttavia è evidente che se la domanda di mediazione viene presentata l’ultimo giorno utile o quelli precedenti si avrebbe una corsa contro il tempo per far nominare il mediatore, far accettare a costui la nomina e far fissare da costui la data dell’incontro, per poter poi, finalmente, procedere alla notifica. In sostanza si avrebbe una “sostanziale” riduzione del termine per evitare la decadenza, peraltro rimessa alla diligenza dell’Organismo di Mediazione scelto.

E’ sufficiente la comunicazione della sola istanza nel termine di decadenza o di prescrizione

Una seconda interpretazione, per evitare la decadenza, considera valida la comunicazione della sola domanda, ovviamente eseguita dalla parte istante, atteso che attendere la fissazione della data dell’incontro e poi la comunicazione rischia di far maturare la decadenza (cfr. Trib. Busto Arsizio, sent. 23.4.2021; App. Milano, sent. 253 del 27.1.2020: Trib. Roma, sent. 13981 del 3.7.2019; Trib. Torino, sent. 1451 del 23.3.2018; Trib Chieti – sez. Ortona, sent.3 del 15.1.2018; Trib. Napoli, sent. 10959 del 7.11.2017; Trib. Savona, sent. 2.3.2014). Ma siffatto modo di procedere non tiene conto del fatto che la norma parla di comunicazione della domanda e della data del primo incontro, e quindi la comunicazione della sola domanda appare meno di quanto la legge richiede per impedire la decadenza. Inoltre, entro quando la domanda dovrebbe essere poi depositata? Il giorno stesso o quello dopo o entro il termine di decadenza? Evidente l’arbitrio che ne nascerebbe.

E’ sufficiente il solo deposito della istanza nel termine di decadenza o di prescrizione

Una terza interpretazione ritiene che possa considerarsi idonea a evitare la decadenza il solo deposito della domanda, o meglio che il solo deposito, purché seguito dalla successiva comunicazione del ricorso e della data di incontro, sia idoneo a dare inizio al procedimento di comunicazione considerato dalla legge ai fini di evitare la decadenza.

A favore di tale interpretazione militano vari argomenti, il primo dei quali è la similitudine con il procedimento notificatorio, ove per il notificante il rispetto di eventuali termini di decadenza o di prescrizione viene valutato in relazione all’inizio del procedimento stesso o meglio a quanto costui debba fare, senza tener conto dei tempi di coloro che eseguono la notificazione e sono soggetti fuori del controllo del notificante, mentre per il notificato i termini a beneficio e a carico dello stesso sono calcolati dalla data di effettivo completamento del procedimento notificatorio (così Corte Costituzionale, sent. 26.11.2002, n. 477; Cassazione SS.UU. sent. 14.4.2011, n. 8491)). Tale componimento degli interessi contrapposti vale anche per il procedimento di mediazione, ove, specie per quello in materia di impugnazione di delibere condominiali, si adduce l’interesse del condominio alla stabilità delle delibere come motivo di interpretazione “restrittiva” del termine dei 30 giorni, ma l’imposizione di tale ulteriore onere a carico del ricorrente (ossia l’esperimento obbligatorio del procedimento di mediazione) deve essere correttamente interpretato e giustificato (a favore di tale ragione per la scelta interpretazione qui offerta cfr. Trib. Brescia, sent. 648 del 18.3.2020; Trib. Roma, sent. 16.7.2020; Trib. Sondrio, sent. 25.1.2019; Trib. Savona, sent. 1091 del 23.10.2018; App. Brescia, sent. 133 del 30.7.2018; Trib. Palermo, sent. 4870 del 20.9.2017; Trib. Firenze, sent. 2718 del 19.7.2016; Trib. Velletri, sent. 1586 del 5.5.2015; Trib. Palermo, sent. 4951 del 2015).

In secondo luogo, la norma di legge che prevede la durata della procedura di mediazione considera come momento iniziale la data di deposito della domanda. Ma che senso avrebbe una siffatta previsione ove, ad esempio, per problemi di notifica la domanda e l’invito dovessero essere notificati dopo svariati giorni? Il senso della norma risiede nel non voler differire sine die il termine di un procedimento che è congegnato come impeditivo della trattazione delle cause da parte del Giudice. Ma allora a maggior ragione la proposizione della domanda vale a interrompere la decadenza e la prescrizione, alla quale farà seguito la effettiva comunicazione.

In terzo luogo, vi è il corretto recepimento della Direttiva 2008/52 CEE, ove all’art. 8, sotto la rubrica “effetto della mediazione sui termini di prescrizione e decadenza”, afferma che “gli Stati membri provvedono affinché alle parti, che scelgono la mediazione nel tentativo di dirimere una controversia, non sia successivamente impedito di avviare un procedimento giudiziario o di arbitrato in relazione a tale controversi per il fatto che durante il procedimento di mediazione siano scaduti i termini di prescrizione o decadenza”.

Ne segue che la stretta interpretazione della norma circa la comunicazione come fatto che interrompe i termini di decadenza e di prescrizione, ove sia slegato al deposito della istanza di mediazione, quale atto introduttivo del procedimento stesso, contrasta apertamente con la suddetta direttiva comunitaria, la quale nella sua essenzialità e semplicità afferma che l’intraprendere un procedimento di mediazione (ossia il presentare la relativa domanda) impedisce ogni decadenza e prescrizione durante il procedimento stesso. Con la ovvia conseguenza che la normativa nazionale – ove contrastante – debba essere disapplicata, e quindi considerata tamquam non esset.

In quarto luogo, vi è un argomento logico funzionale, relativo alla utilità della disciplina della mediazione ai fini della riduzione del contenzioso giudiziario. Nel timore che l’Organismo di Mediazione non eseguisse la comunicazione nel termine di decadenza, specialmente ove la domanda fosse presentata nella seconda quindicina del periodo, il ricorrente sarebbe indotto per cautela a proporre direttamente il giudizio, evitando ogni decadenza, e in tal sede, ove fosse sollevata la relativa eccezione o rilevata la questione d’ufficio, potrebbe poi beneficiare del termine per introdurre il procedimento (che, nota bene, si intende introdotto con il solo deposito della istanzaargumenta ex art. 5 D. Lgs. 28/2010  – , e dunque rendendo ormai ancor più irrilevante data della la successiva comunicazione), ma così gravando i ruoli di procedimenti potenzialmente inutili.

In conclusione, l’unica interpretazione della disciplina giuridica del rapporto tra mediazione e decadenza in materia di impugnazione delle delibere condominiali annullabili ragionevole, compatibile con lo spirito della nostra Costituzione e conforme alle direttive comunitarie, risulta quella secondo la quale la decadenza è evitata ove la domanda sia presentata ad un Organismo di Mediazione entro il termine di 30 giorni.

Avv. Giorgio Falini 

assegno mantenimento coniuge

Assegno Mantenimento Coniuge autosufficiente ma più Debole

Determinazione Assegno di Mantenimento in sede di Divorzio – Riconoscimento del Mantenimento anche in caso di Autosufficienza Economica del Coniuge più debole – Le Nuove Regole dettate dalla Corte di Cassazione.

La Suprema Corte di Cassazione interviene nuovamente in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, confermando, da un lato, l’abbandono del criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma riconoscendo, dall’altro, detto mantenimento, malgrado l’autosufficienza economica del coniuge più debole.

La Suprema Corte di Cassazione con ordinanza del 8 settembre 2021, conferma il suo nuovo orientamento, inaugurato con la sentenza n. 11504 del 2017 e perfezionato con le Sezioni unite del 2018, per il quale l’assegno di mantenimento da destinare al coniuge più debole in sede di divorzio non può essere teso in alcun modo a garantire il pregresso tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale.

Al tempo stesso, però, detto, assegno può essere riconosciuto anche in presenza di autosufficienza economica del coniuge destinatario, qualora lo stesso sia in grado di provare i sacrifici dallo stesso fatti in costanza di matrimonio,  attraverso circostanziate scelte di vite, per venire incontro ai bisogni della famiglia.

In questo caso l’assegno avrà come finalità quello di compensare detto coniuge dei sacrifici fatti in funzione della famiglia, rivelando in tal modo la sua natura compensativa-perequativa.

Circa le modalità di determinazione dell’assegno mantenimento coniuge, l’ordinanza in commento, questo testualmente prevede:

“In definitiva, il giudice deve quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza ma ancorata ad un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, nel qual caso l’assegno deve essere adeguato a colmare lo scarto tra detta situazione ed il livello dell’autosufficienza come individuato dal giudice di merito. Ed inoltre, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l’assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali (che il coniuge richiedente ha l’onere di dimostrare nel giudizio), al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo assistenziale”    

Avv. Paola Martino

negoziazione assistita

Negoziazione assistita, domanda giudiziale e decorso interessi

L’invito alla negoziazione assistita costituisce domanda giudiziale ai fini del decorso degli interessi ex art. 1284 comma quarto Codice Civile

La eccessiva durata dei processi in Italia costituisce fatto notorio. Nell’ambito del diritto civile, anche in relazione al recepimento di apposita Direttiva CEE, il legislatore ha introdotto una disciplina diretta a evitare che il ritardo nei pagamenti possa costituire motivo di pregiudizi economici a carico dei creditori, e ha previsto la determinazione di un tasso di interesse sui crediti insoluti derivanti da “transazioni commerciali” (cfr. art. 2, D.Lgs. n. 231/02), tale da, in ipotesi, scoraggiare i ritardi nei pagamenti (D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in recepimento Direttiva CEE n. 2000/35/CE; D.Lgs. 9 novembre 2012, n. 192, in recepimento Direttiva CEE n. 2011/7/UE).

Siffatta tutela era concessa, sotto il profilo soggettivo, ai crediti tra imprenditori e verso la Pubblica Amministrazione, di guisa che anche in difetto di convenzione tra le parti in materia il tasso degli interessi era determinato direttamente da tale normativa speciale. Di conseguenza si è andato creando un dualismo: da una parte i crediti “civili” e dall’altra quelli “commerciali”, tenuto conto del diverso regime degli interessi (moratori).

I crediti “commerciali” e i crediti “civili”

Infatti, per i crediti “civili” il tasso di interesse, in difetto di convenzione, è quello previsto dall’art. 1284 Cod. Civ., il c.d. interesse legale (mentre a ben vedere si dovrebbe definire il tasso legale degli interessi, contrapposto a quello convenzionale).

Se con la suddetta normativa si era posto per i crediti “commerciali” un rimedio dissuasivo rispetto alla durata dei processi, ovvero alla prassi di usare la lunghezza dei processi come metodo di finanziamento, visto il tasso assai basso degli interessi sui crediti in via di accertamento giudiziale; nulla si era previsto per gli altri crediti, con la conseguenza di favorire la opportunistica contestazione in giudizio dei crediti di questa seconda specie, stante l’inconsistente effetto deterrente del saggio legale degli interessi.

La variazione del tasso degli interessi per i crediti “civili” quale effetto dell’accesso alla giustizia

A tale situazione ha posto rimedio la modifica dell’art. 1284 Cod. Civ. con l’introduzione dell’attuale quarto comma che recita: “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.” e del successivo quinto comma: “La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale.” (tali comma sono stati aggiunti dall’art. 17, comma 1 del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modifiche, nella l. 10 novembre 2014, n. 162).

Per effetto di tale previsione, anche i crediti “civili” beneficiano del tasso previsto dalla legge per i crediti “commerciali” a decorrere dalla proposizione della domanda giudiziale, ovvero dall’atto di promovimento di procedimento arbitrale. All’evidenza viene dunque rafforzata la tutela di tali crediti e “scoraggiata” la infondata ma dilatoria resistenza in giudizio.

calcolo interessi

La decorrenza della variazione del tasso degli intessi e gli ADR obbligatori

Nel nostro sistema processuale sono state però introdotte due importanti novità: la mediazione (D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 e D.L. 21 giugno 2013, n. 69) e la negoziazione assistita (D.L. 12 settembre 2014, n. 132, conv. L. 10 novembre 2014, n.  162). Tali procedimenti alternativi alla tutela giurisdizionale dei diritti (Alternative Dispute ResolutionADR) sono stati posti in alcune ipotesi (v. art. 5, comma 1bis  D.Lgs. n. 28/10 e art. 3 D.L. n. 132/14) come antecedente necessario per poter accedere a detta tutela, di guisa che la domanda giudiziale deve essere preceduta dall’esperimento o dell’una o dell’altra modalità alternativa di risoluzione delle controversie.

Ma come si coordina tale previsione processuale con la disciplina codicistica di cui sopra circa la (decorrenza della) variazione del tasso degli interessi? La risposta più razionale è quella secondo la quale ove la domanda giudiziale debba essere preceduta da un procedimento alternativo (ADR) la decorrenza della variazione del tasso degli interessi debba essere fissata all’atto iniziale di tale procedimento, e dunque o il deposito della domanda di mediazione presso l’Organismo di Mediazione o la notifica dell’invito alla negoziazione assistita. Solo in tal modo, infatti, l’onere di espletamento preliminare di tali procedimenti si rivela idoneo a non pregiudicare il diritto al mutamento del tasso degli interessi.

Conferma della correttezza della prospettata soluzione interpretativa giunge da due decisioni emesse dal Tribunale di Siena: l’una del 13 luglio 2019, e l’altra dell’8 settembre 2021. Nei casi in commento i ricorrenti avevano notificato invito alla negoziazione assistita e poi agito in giudizio per un credito (inferiore a euro 50.000,00 e dunque soggetto a negoziazione assistita). In entrambi i casi gli estensori delle due ordinanze decisorie hanno riconosciuto che il tasso degli interessi dovuti mutava dalla data di notifica dell’invito alla negoziazione assistita, proprio in quanto da tale momento dovevano farsi “retroagire” gli effetti della domanda giudiziale su tale tasso ex art. 1284 Cod. Civ.

ordinanza_13_7_2019ord dec 8-9-2021

Avv. Giorgio Falini 

affido condiviso

Affido Condiviso e Mantenimento Diretto dei Figli

Figli: i distinguo della Corte di Cassazione sull’affido condiviso e il mantenimento diretto

È possibile che, in caso di affido condiviso, ciascun genitore provveda al mantenimento diretto del figlio, senza corrispondere alcunché all’altro genitore? La risposta, per la Suprema Corte è, sostanzialmente, negativa (cfr. Cass. Ordinanza n. 1722 del 16 giugno 2021)

Una domanda che viene frequentemente posta durante i colloqui presso lo Studio, di solito da parte del genitore economicamente più capiente, in vista della separazione e/o divorzio, è se sia possibile provvedere al mantenimento diretto dei figli, nell’ipotesi in cui lo stesso sia collocato presso i due genitori per un tempo del tutto paritario, escludendo in tal modo la corresponsione di ogni assegno all’altro genitore.

Il ragionamento seguito è di solito il seguente: se mio figlio sta con me e con l’altro genitore per pari tempo (che sia una settimana, un mese ecc..), durante la sua permanenza presso di me provvederò io integralmente al relativo mantenimento e lo stesso farà, nel periodo di sua spettanza, l’altro genitore.

Questo ragionamento non trova però il beneplacito della Suprema Corte di Cassazione, che è intervenuta più volte sul punto, escludendo che l’affido condiviso implichi, come conseguenza automatica, che ciascuno genitore debba provvedere paritariamente in modo diretto ed autonomo al mantenimento dei figli.

Ciò in quanto, se è vero che l’affido condiviso – ormai la norma – implichi una frequentazione paritaria dei genitori con il figlio, nell’interesse morale e materiale di quest’ultimo, è altresì vero che deve essere garantito al figlio una situazione il più confacente possibile al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena.

mantenimento diretto

Vi sono casi in cui una vita perfettamente “suddivisa” tra i due genitori non è concretamente possibile, a causa, ad esempio della distanza tra le due abitazioni della madre e del padre.

In tal caso, applicare rigidamente il criterio dell’affido condiviso significherebbe, imporre al figlio una vita frammentata, onerandolo di tempi e sacrifici di viaggio tali da comprometterne gli studi, il riposo e la vita di relazione.

In questi casi, l’affido condiviso non equivale a perfetta equivalenza di tempo che il figlio trascorre con i due genitori.

Vi sarà in tal caso un c.d. genitore collocatario, ovvero un genitore presso il quale il figlio vivrà prevalentemente, che dovrà, quindi, essere in grado di garantire il medesimo tenore di vita di cui il figlio godeva prima della crisi familiare.

E provvedere alle esigenze del figlio non vuol dire far fronte unicamente all’obbligo alimentare, ma soddisfare una molteplicità di esigenze –  relative, ad esempio,  all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale -;  esigenze tutte queste che presuppongono una stabile organizzazione domestica, che dovrà essere garantita dal genitore convivente che sarà tenuto ad anticipare le relative  spese e a provvedervi nella quotidianità attraverso la necessaria programmazione che connota la vita familiare.

Di qui l’esigenza che l’altro genitore contribuisca con il versamento di un assegno che consentirà al figlio di risentire il meno possibile della crisi familiare, sotto il profilo della sua quotidianità e delle sue abitudini, del suo stile e tenore di vita.

Diverso è il discorso del mantenimento diretto del figlio maggiorenne per il quale si rinvia ad altro articolo specifico sull’argomento.

Avv. Paola Martino